Angeli del deserto

Nell’elicottero, un vecchio ma affidabile AB-205, la temperatura era torrida nonostante i portelloni spalancati. Gocce di sudore uscivano dal casco del pilota,  davanti a me  e inzuppavano il colletto e le spalle della tuta di volo.

di Luigi Chiavarelli

Eravamo diretti alle alture del Golan. Seduto al centro dello scomodo  sedile posteriore potevo ammirare a destra, verso Ovest, la sterminata distesa verde dei campi israeliani, freschi boschetti, piccoli, lindi paesi di comunità agricole, edificati su colline fortificate come antichi castelli.

A sinistra, a Est,  scorreva veloce una landa desolata, pietraie roventi, ammassi polverosi del deserto libanese inframmezzati da agglomerati di strutture color ocra, misere, rosicchiate dalle raffiche e dagli sbalzi di temperatura.  Due mondi contrapposti, due visioni diverse della vita si fronteggiavano sentendosi entrambe vittime del fanatismo e dell’egoismo dell’avversario.

Nulla si muoveva sul confine israeliano. Occhi elettronici a cui nulla sfuggiva erano in agguato e non era necessario inviare pattuglie in quel forno insopportabile. Notai con curiosità che sul confine, davanti e parallelamente all’alto ed elettrificato reticolato israeliano, era stesa una fascia di sabbia finissima, ben livellata. In quel mondo dove l’elettronica fantascientifica la faceva da padrona, una semplice impronta sulla sabbia era ancora uno dei mezzi più sicuri per rilevare il passaggio del nemico.

Ogni tanto da qualche spaccatura del terreno spuntavano le canne delle quadrinate libanesi che ci puntavano e per un tratto seguivano il nostro volo, minacciose. Sembravano dirci: “Occhio, siamo qui, non fate scherzi o vi abbattiamo”. Nel passato era successo e sangue italiano aveva inzuppato quelle lande dimenticate da Dio.

Volavo alla quota prescritta di 500 piedi su un elicottero italiano “targato” ONU-ITALAIR, bianco come un lenzuolo, visibilissimo, disarmato.  ITALAIR (3) era ed è ancora mentre scrivo queste righe, il reparto di volo di supporto alle truppe ONU del contingente UNIFIL (4) schierate sul confine israelo-libanese per tentare di impedire un ennesimo, mortale scontro

Mentre il flappeggio possente delle pale dell’elicottero mi cullava, il pensiero andava a quei soldati italiani dell’Aviazione dell’Esercito e dell’Aeronautica , sconosciuti ai più, ignorati in Patria, che da trent’anni volavano in quei cieli, bollenti sotto ogni punto di vista, su antiquati elicotteri monomotore, tenendo alto, molto alto il nostro tricolore.

Ripensavo alle parole del Comandante indiano del contingente ONU, il superiore dei nostri elicotteristi, un Generale di Divisione che ero andato a salutare al mio arrivo nella terra dei cedri. Le sue parole mi avevano commosso e a stento avevo controllato la voce, incrinata dall’emozione che avevano provocato nel mio animo.

“ I suoi soldati, Generale- aveva affermato– sono tra i migliori che abbia mai incontrato. Solo di loro ho assoluta fiducia. All’inizio avevo qualche titubanza, non conoscevo gli Italiani. Sono stato loro addosso nelle prime settimane del mio mandato, li ho controllati a fondo, troppo importante era il loro ruolo. Hanno saputo conquistare la mia piena fiducia e la mia simpatia.  In mille situazioni li ho visti all’opera. Non si tirano mai indietro e hanno sempre il sorriso sulle labbra. Con una battuta sanno sdrammatizzare le situazioni più  rischiose e quando il pericolo è troppo alto, sono i Comandanti stessi ad andare in volo”.

Lo sapevo bene. Conoscevo da tanti, troppi anni i nostri soldati ma sentir dire quelle parole che andavano molto al di là dei complimenti formali mi colpiva profondamente e m’ inorgogliva. Come avrei voluto che sentissero in Patria quelle  parole e con quello slancio sincero!

In prua cominciarono a stagliarsi contro il cielo terso, azzurrine, ancora indefinite, le contesissime alture dove eravamo diretti e da cui scaturiva l’acqua del Giordano .

Una virata a coltello verso sinistra mi fece sobbalzare. “ Mi scusi per non averla avvertita Comandante-esplose nel mio casco la voce del pilota- ma volevo farle vedere il campo minato di cui abbiamo parlato in sede”.

Ricordai l’episodio che mi avevano raccontato al Comando italiano e che aveva citato con ammirazione anche il Generale indiano. Avevo chiesto io di sorvolare il punto visto che si trovava sulla rotta.

 “Vede laggiù a ore nove quella striscia più scura? E’ lì che la donna è saltata su una mina. A pochi metri più a sinistra è saltato anche il figlio che era corso ad aiutarla. I due non erano morti e strillavano dal dolore ma nessuno ha più osato avvicinarsi. Erano moglie e figlio di un Comandante locale di Hezbollah”

Ricordavo bene le parole del generale indiano. La chiamata di aiuto era giunta ad UNIFIL nel primo pomeriggio di un giorno di burrasca. Vento fortissimo a raffiche e  temporali in tutto il basso Libano impedivano pressoché ogni movimento a terra ed in cielo. Più per prassi che per convinzione era stata contatta la sala operativa di ITALAIR sulla base di Naquoura per sentire se gli Italiani potevano fare qualcosa. Sapevano già che la risposta sarebbe stata negativa. Con quel tempo e su un campo minato non registrato (5)..!

Attendete cinque primi che avverto il Comandante” rispose la voce del Sottufficiale di servizio.

Dopo un po’ più di cinque primi di nuovo la voce del Sottufficiale. “Il Comandante in persona è già in volo con il Capo centro Operativo, uno Specialista e l’Ufficiale medico. Ha detto che non si poteva perdere tempo in chiacchiere. Riferirà in volo se la missione può proseguire o meno.”

Lo staff francese del comando ONU riferì al Generale indiano che, mi disse, non sapeva se essere più preoccupato per l’equipaggio oppure più orgoglioso per quello che stavano facendo i suoi soldati.

Il volo fu molto complesso, più volte raffiche improvvise fecero temere il peggio. Ma il Tenente Colonnello italiano sapeva il fatto suo. Volando rasente al suolo, coprendosi dietro ben noti costoni resistette alla furia del vento. Dopo circa un’ora una chiamata. “Siamo sul posto. Piove e c’è vento. Abbiamo visto il punto delle esplosioni. Ci sono due corpi a terra, immobili. C’è molto sangue. Proviamo a recuperarli. “

Miracolosamente ci riuscirono.

L’elicottero ero tornato alla base che faceva quasi buio e i due feriti erano stati curati nell’ospedale ONU gestito da personale svedese. La donna aveva perso una gamba ed il figlio un piede ma erano entrambi vivi…grazie agli Italiani.

Dopo ampi giri sul posto che non aveva più alcuna traccia dell’evento, riprendemmo la rotta verso le montagne. La perfetta ospitalità dei soldati nepalesi e un pranzo molto, molto  piccante mi attendevano in cima ad una montagna.

Avevo nel cuore uno strano sentimento. In quell’afosa mattinata libanese, volando su un confine che era una polveriera sempre a rischio di esplosione, pensavo al mio strano popolo, incapace di fare le cose a metà e  condannato ad eccellere: talvolta nel male e nell’abiezione ma molto più spesso sublime  nel bene e nell’eroismo, spesso sconosciuto, lontano dai riflettori, fatto come cosa ordinaria che si deve fare perché è giusto così. Ancora una volta mi sentii  veramente orgoglioso di essere italiano.

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