Quello che andiamo a raccontare è lo spaccato della vita di un normale giorno presso una SAL di tanto tempo fa, diciamo nel secolo scorso: correva difatti l’anno del Signore 1958, anno più anno meno.
Sull’aeroporto di Treviso – S. Angelo erano dislocate tante SAL, forse quattro, forse sei, forse otto. I mezzi in dotazione erano i nuovi L21 B non più lancio dell’elica ma avviamento elettrico, potenza all’asse 130 HP e colorati di giallo brillante per essere ben visibili sia agli amici che ai nemici.
Gli strumenti di navigazione consistevano solo in una bussola magnetica; i mezzi per il collegamento t.b.t. erano invece molteplici e sofisticati: un sacchetto lancia messaggi, una pigna raccogli messaggi, teli bicolori per segnalazioni e infine una radio R610, questa era installata nel bagagliaio, alle spalle del 2° pilota; il quale, per sintonizzarsi, ogni volta doveva slacciarsi, girarsi in quello spazio avendo indosso il paracadute, inginocchiarsi sul sedile e ruotare quattro o cinque manopole per cercare di afferrare la frequenza desiderata. Come si vede, un bel passo avanti rispetto alle radio a galena.
L’aeroporto era di proprietà dell’Aeronautica militare e avevano la loro base i G 91; non avendo noi alcuna possibilità di collegarci con le attrezzature radio dell’A.M., era stata installata nelle torre di controllo una nostra R 610, che avrebbe dovuto consentire la gestione del traffico anche dei velivoli delle SAL. Ma per cento motivi, tutti validi, a nostra memoria quel collegamento non è mai avvenuto e la torre continuava ad autorizzare decolli ed atterraggi tramite lampada a lampo di luce rossa o verde. Per cui di un aereo partito, si sapeva solo che era partito e dopo nessuno era in grado di dire ove fosse e se fosse arrivato a destinazione.
Nella cornice di questi mezzi e di queste attrezzature si dipana la nostra storiella, che storiella non è.
Era un bel mattino di maggio inoltrato, il cielo limpido, l’erba medica e i giovani platani in stentata fioritura scaraventavano nell’aria il profumo di primavera, si sentiva addosso una voglia di fare, anzi di strafare.
Preannunciato dagli squilli di tromba del corpo di guardia, arrivò il comandante del 33° rgt. a. per essere trasportato a Trieste, dove era di stanza il II gruppo. Era un colonnello, ma appariva subito un Signor Colonnello: portamento diritto, enorme basco Kangol, baffi alla Saddam, frustino scarpe e guanti di camoscio.
Si accomodò nel velivolo già pronto; il pilota, uno scattante tenente dei bersaglieri La Marmora, si mise ai comandi e l’aereo, alla luce verde della torre, decollò alla bersagliera, a fine pista aveva già raggiunto i 500 piedi di quota consentiti nella zona.
Come già detto, era una di quelle giornate che allargano il cuore e le meraviglie della natura sembrano ancora più meraviglie. Sorvolarono il Piave, calmo, placido azzurro; sorvolarono il Tagliamento ove si vedevano i soldati che toglievano i graticci mimetici dalle opere fortificate; sorvolarono il Cellina –Meduna mentre i carri correvano rompendo i cingoli sul greto pietroso del fiume; si avvicinarono al mare che, con il sole che si specchiava e si rifletteva, sembrava una distesa di oro fuso.
Qui giunti, le regole imponevano di tenersi sulla terraferma, costeggiare Cervignano e Monfalcone fino a Prosecco.
Ma in una splendida giornata le regole si dimenticano con più facilità e così il pilota, lasciandosi alla sinistra Grado, puntò diritto sul mare in direzione di Trieste e iniziò la traversata del golfo omonimo.
Ora l’aereo procedeva tranquillo, non c’era turbolenza, non c’erano motivi di distrazioni perché non si vedeva neanche una barchetta: il rumore monotono del motore cominciava a generare torpore nel colonnello, che era lì lì per appisolarsi. All’improvviso questa pace della natura fu rotta da un urlo del pilota: “emergenza, contatti tolti, benzina chiusa, atterraggio forzato.”
Il colonnello sobbalzò, stette qualche secondo in apnea, poi cominciò a guardarsi attorno per cercare di capire. Il bel rumore del motore non si sentiva quasi più, il pilota era immobile e senza parola, il velivolo stava lentamente perdendo quota avvicinandosi inesorabilmente alla superficie del mare che ora non sembrava più né oro né azzurro ma nero come la pece.
E capì che era giunto uno di quei momenti nella vita di un uomo in cui si dice: questa volta è fatta. Dette un’aggiustatina, calzò meglio i guanti, raccattò il frustino, si posizionò più eretto sul sedile e aspettò il grande evento con la dignità di un Colonnello.
Quando l’aereo era vicino ad infilarsi nelle onde, l’atmosfera surreale di silenzio fu rotta da un nuovo urlare del pilota: “benzina aperta, contatti inseriti, avviamento”, e si risentì il suono amico del motore a buon regime. L’aereo cominciò a guadagnare quota, ad allontanarsi da quel mare che era sembrato già a contatto dei piedi.
Il colonnello, ritornato presente a se stesso, chiese con voce quasi calma cosa fosse successo
“Signor Colonnello”, fu la risposta, “ho simulato un atterraggio di emergenza, lo facciamo per tenerci in allenamento”.
“Ah”, fece il colonnello, era solo un’esercitazione!”
Da questo momento le versioni sul prosieguo della storiella divergono.
Il Colonnello, nel raccontare l’episodio qualche tempo dopo, mentre sorseggiava un caffè, sostenne di aver posto amorevolmente la mano chiusa sulle spalle del pilota per dirgli: “bravo, ma proprio bravo”; e aggiunse che il pilota, forse abbagliato dal troppo sole che arrivava sia direttamente che dal riflesso del mare, era stato preso da una specie di capogiro e non controllava tanto bene il velivolo, per cui egli era dovuto intervenire sui comandi, per quello che poteva e sapeva fare, per tenere l’aereo in quota e dirigerlo verso la costa.
Il pilota, dal canto suo, con noi sosteneva che effettivamente era stato colto da improvviso malore, ma un malore così strano che né prima né dopo aveva provato qualcosa del genere; per darci un’idea, ci spiegava, era come se gli fosse giunta una randellata tra capo e collo e gli si era oscurata la vista; forse era svenuto, sosteneva, forse erano stati solo degli incubi, perché ogni tanto sentiva che il velivolo puntava verso il mare, ogni tanto lo sentiva che puntava verso il cielo a tutto motore, ogni tanto si sentiva proiettato su una fiancata da derapate da luna park.
Dopo un po’ aprì meglio gli occhi: intravide la costa che si profilava davanti, riconobbe il castello di Miramare, riconobbe Trieste che sonnecchiava sospesa tra mare e monti e allora si rese conto di essere ancora in questo mondo e puntò diritto su Prosecco.
L’avvicinamento fu abbastanza laborioso, avvertiva che la cloche e i pedali erano duri da gestire; tuttavia il velivolo, fedele al principio che tutto quello che è in aria prima o poi finisce al suolo, terminò onestamente la sua corsa dentro l’area aeroportuale, col muso a dieci centimetri dalle barriere antivento.
E qui, siamo stati sul punto di fare i nomi dei due protagonisti; poi abbiamo cambiato idea.
Entrambi, già da tempo, sono decollati per l’ultima missione e anche se non ci è pervenuta la chiusura del piano di volo perché la R610 come al solito non ha funzionato, siamo sicuri cha lassù sono arrivati sani e salvi. Forse ora sono spaparazzati in qualche prato del cielo, molto più grande di un aeroporto, immersi nel profumo di candidi asfodeli e platani giganti in perenne fioritura, a bearsi della luce del buon Dio.
E allora lasciamoli lì, in santa pace.