1995 Claudio Gasperini: Operazione United Shield

Premessa

L’operazione “United Shield” si svolse nel periodo gennaio-marzo 1995 nell’ambito della partecipazione italiana alla formazione di una forza anfibia multinazionale ( con la partecipazione di forze USA ed italiane) che garantisse la necessaria cornice di sicurezza e di protezione per il ripiegamento ordinato e sicuro delle truppe ONU che lasciavano la Somalia, in ottemperanza alla risoluzione delle Nazioni Unite nr. 954 del Novembre 1994 che deliberava il termine della missione UNOSOM entro il 31 Marzo 1995.

In tale contesto, l’Esercito approntò Unità di Paracadutisti ed Incursori, mentre all’Aviazione dell’Esercito fu richiesto di fornire uno Squadrone di 4 Elicotteri d’Attacco A129 (EA) che sarebbe stato inserito nella componente aerea imbarcata della Marina Militare (elicotteri AB212 ed SH3D, aerei a decollo verticale AV8 “HARRIER”), facente parte del 26 Gruppo navale; in particolare, gli aeromobili, ed il relativo materiale per il sostegno logistico, sarebbero stati imbarcati sull’incrociatore portaeromobili “Garibaldi”.

Fase preliminare

Lo Squadrone di formazione era emanazione e sotto la responsabilità operativa e logistica del 5^ Reggimento Rigel di Casarsa, in particolare del 49^ Gr.Sqd. “Capricorno”, unico Reparto ad avere in dotazione  tale tipologia di aeromobili.

Il personale necessario, come di prassi in quell’epoca, fu tratto dai vari Enti e/o Comandi che disponevano delle richieste professionalità e qualifiche sull’aeromobile; è necessario, infatti, considerare che gli A129 erano, in quel periodo, in fase di assegnazione al 49^ Gruppo e che la loro configurazione era in costante evoluzione.

Gli accordi tra gli Stati Maggiori interessati non furono né facili né veloci: la prospettata situazione di imbarco di uno Squadrone aggiuntivo, con i relativi mezzi e materiali, infatti, poneva indubbie problematiche di carattere logistico per Nave Garibaldi, il cui organico era stato già ampliato per soddisfare le proprie esigenze.

Inoltre, è di tutta evidenza che si guardava con una certa diffidenza ad una situazione ibrida ed in qualche modo “forzata” che prevedeva l’inserimento organico di assetti dell’AVES che non avevano il background e le qualifiche richieste per il personale aeronavigante della Marina. In sostanza, la cosa avrebbe potuto rappresentare, come vedremo, uno “scomodo” precedente.

L’organico dello Squadrone, pertanto, fu definito in maniera tale che fossero soddisfatte le esigenze funzionali ed operative (si trattava di assicurare un consistente numero di ore di volo e la massima efficienza possibile, prevedendo anche interventi di 2^ livello manutentivo) con le ridotte disponibilità di spazio concesso dalla Marina Militare.

Grazie all’esperienza maturata nella precedente missione somala, il personale logistico proveniente dai RRAE competenti, predispose la ricambistica e le attrezzature indispensabili per garantire un’attività di volo minima di 200 ore, prevedendo l’effettuazione di manutenzioni preventive e correttive.

Per le ispezioni preventive, furono ipotizzate 1 ispezione delle 100 ore e 3 ispezioni delle 25 ore (obiettivo, come si vedrà a consuntivo, abbondantemente superato, vista l’effettuazione di 4 ispezioni delle 100 ore e 6 delle 25 ore).

Durante questa fase furono, inoltre, affrontati e risolti i numerosi problemi tecnici che la nuova situazione operativa imponeva, come, a titolo di esempio non esaustivo: l’ancoraggio degli aeromobili, i rifornimenti “a caldo”, il ripiegamento pale ed il rapido spostamento degli elicotteri nei sottostanti hangar per garantire l’impiego del ponte di volo per gli altri assetti, l’esposizione prolungata ad ambiente marino eccetera.

Con pragmatismo ed una certa dose di “inventiva” questi problemi furono risolti nel rispetto anche delle esigenze di sicurezza.

Amalgama del personale

L’addestramento di amalgama dei equipaggi fu impostato per risolvere diversi livelli di problemi:

– quello interforze, per familiarizzare gli equipaggi Esercito e Marina ad operare in pattuglie miste, essendo previsto di impiegare gli aeromobili in formazioni miste;

– quello squisitamente dell’AVES, per l’esigenza di operare in un contesto multinazionale, basato sullo stretto rispetto degli STANAG NATO per operazioni anfibie, mai applicate dalla Specialità che affrontava per la prima volta questo tipo di missioni. La situazione portò gli equipaggi a dover imparare rapidamente il modus operandi imposto: gli ordini dei Comandi e le richieste di intervento delle truppe a terra sarebbero stati dati seguendo queste modalità; il non conoscerle avrebbe portato all’impossibilità di poter operare nel contesto o, peggio, alla possibilità di creare grossi problemi operativi alle truppe a terra;

– quello tecnico, per apprendere le metodiche e per familiarizzare con le operazioni di volo (appontaggi e decolli) e di movimentazione degli elicotteri, come previsto per le operazioni navali. Questo addestramento fu condotto operando direttamente su Nave Garibaldi. Vista la specificità dell’A129, peraltro, non fu possibile imbarcare a bordo degli aeromobili Piloti della Marina per una sorta di qualifica alle operazioni aeronavali: con il solo supporto dei briefing  tenuti dai colleghi della Marina e di un volo fatto su un SH3D per mostrare praticamente come si svolgevano le attività da bordo, le attività di volo furono svolte in proprio.

Questa fase di addestramento, della durata di qualche decina di giorni e realizzata nell’immediatezza della partenza, fu condotta sulla base dell’Aviazione di Marina di Grottaglie (TA) e caratterizzata dall’effettuazione di numerose missioni ed esercitazioni congiunte.

In navigazione verso la Somalia

La lunga navigazione, che portò il dispositivo navale a ridosso delle coste somale, fu occasione per incrementare gli addestramenti sia individuali che di pattuglia, di giorno e di notte, con frequenti “esercitazioni di allarme” per simulare le  operazioni di intervento immediato che, presumibilmente, avrebbero caratterizzato l’attività in zona di operazioni.

Gli equipaggi furono sempre più a loro agio nelle operazioni navali; l’addestramento notturno, con l’impiego dei visori NVG e dei sistemi per l’impiego notturno dei sistemi d’arma, fu spinto, con gradualità ma con decisione, fino a raggiungere lo standard necessario. Il mix tra giovani ed esperti piloti funzionava a dovere, così come il travaso di esperienze tra coloro che venivano dalla precedente missione somala e quelli che, viceversa, non avevano mai operato in tale ambiente operativo.

Per il personale tecnico, questo fu un pesante periodo di attività: le manutenzioni sia quelle programmate che quelle di rimessa in efficienza degli aeromobili furono costanti, anche a causa di frequenti, quanto inattese, avarie che misero a dura prova gli specialisti e, nel contempo, permisero di validare la bontà delle previsioni dei materiali di scorta e delle attrezzature,  a suo tempo immaginati. Furono sostituiti motori, trasmissioni e complessivi di tutto rispetto. L’attenta attività di pianificazione della manutenzione consentì di effettuare gli addestramenti previsti e di giungere in zona di operazioni con tutti e quatto gli aeromobili in piena efficienza e con una consistente disponibilità di ore di volo.

Questa fase fu anche un buon banco di prova per valutare gli impatti psicologici e pratici su personale che non era abituato alla vita “ristretta” di un ambiente non familiare come quello di una nave (va detto che, come riferivano gli stessi marinai, per la prima volta si superarono gli oltre due mesi di navigazione, senza sbarchi e momenti significativi di riposo); gli uomini reagirono bene ma con indubbi momenti di tensione acuiti anche da una situazione logistica che risentiva dell’overbooking dal quale, ovviamente, gli “ospiti” dell’AVES avevamo qualche penalizzazione in più (come detto, c’era anche il pieno di elco MM ed aerei AV8). Ricordo di colleghi che andavano a riposare (dormire sarebbe un termine inadatto, viste le circostanze) indossando tappi per le orecchie e, qualcuno, le cuffie anti rumore, vista la collocazione della loro cabina dietro i motori del Garibaldi!

 

La zona di operazioni  

All’arrivo in zona di operazioni, iniziò la fase di integrazione delle nostre pattuglie miste nel dispositivo multinazionale, attraverso brevi ma intense esercitazioni con la partecipazione anche dei Cobra delle forze US con le quali si sarebbe cooperato di lì in avanti. Furono definite, durante numerosi briefing internazionali, le responsabilità e le metodiche di supporto alle forze da sbarco e la suddivisione delle “slot” di competenza per la sorveglianza e gli eventuali interventi a fuoco.

La fase operativa vera e propria, che prevedeva il dispiegamento sul territorio somalo delle forze anfibie, imbarcate su LPD (navi da sbarco della Marina), fu il momento più delicato dell’operazione: la fluidità della situazione, l’imprevedibilità degli sviluppi, in termini di possibili disordini o assalti delle fazioni in guerra, durante il disimpegno delle forze ONU, rendevano necessario essere pronti a reagire, in tempo reale, nelle 24 ore.

In tale ottica, fu disposto dal Comando multinazionale delle Operazioni che le pattuglie di aeromobili rimanessero in volo durante l’arco diurno mentre nell’arco notturno, gli aeromobili furono tenuti in stato di allarme, pronti ad intervenire entro 15′ minuti dall’allertamento. Furono, pertanto, predisposti gli aeromobili, già carichi e pronti per il decollo sul ponte di volo; i piloti e gli specialisti attendevano, in completo assetto, nella sala riunioni, seguendo l’evolversi della situazione.

Il rapporto elicotteri/equipaggi, pianificato in sede iniziale, si rivelò corretto e consentì di alternare i turni di allarme con sufficienti turni di riposo.

Nonostante alcuni momenti di tensione, in concomitanza dello sbarco ed il successivo reimbarco delle truppe costituenti la “testa di ponte” delle forze della coalizione, non ci furono richieste di intervento a fuoco e tutto si svolse secondo quanto pianificato e senza incidenti significativi.

Nei tempi previsti, la missione operativa si concluse positivamente anche in virtù della deterrenza mostrata dall’imponente dispositivo posto in atto.

In rientro verso casa

Concluse le attività operative ed i relativi briefing post missione a livello di dispositivo multinazionale, era arrivato il momento di fare rotta per il rientro.

La navigazione verso Taranto, base di partenza del contingente italiano, consentì, tuttavia, di continuare le attività congiunte tra gli aeromobili delle due Forze Armate per consolidare le esperienze e correggere le piccole discrepanze che si erano evidenziate durante l’operazione.

Anche a livello di staff nazionale, furono intensificate le riunioni ed i contatti per “limare” quegli aspetti, normativi, operativi e tecnici, di cui ci sarebbe dovuto occupare per un’eventuale ripetizione dell’esperienza che, a detta di tutti i partecipanti, aveva fornito risultati di assoluto rilievo. Anche per noi dell’AVES era il momento di stilare i rapporti, tutti positivi, circa la missione svolta e di fornire il nostro punto di vista per eventuali ripetizioni della cooperazione appena terminata.

Durante il rientro, ci fu anche il tempo per una veloce sosta in Arabia Saudita per consentire agli uomini un sia pur minimo momento di relativo riposo: dopo oltre sessanta giorni navigazione e di intensa attività, la decisione di quella breve sosta fu accolta con entusiasmo da tutti.

Il rientro a Taranto del dispositivo fu salutato dalle autorità civili e militari con grande enfasi e fu così che si sciolse “la compagnia dell’anello” dopo quasi tre mesi di ininterrotto lavoro e quasi 200 ore di volo degli aeromobili, molte delle quali in attività notturna.

Conclusioni 

Certamente l’A129, nato per un impiego terrestre ed ancora in fase di evoluzione nella sua configurazione (a quel tempo, l’elicottero non disponeva, ad esempio, del cannone né di un sistema di navigazione GPS integrato), presentava alcuni punti deboli per il suo utilizzo in un ambiente navale ma erano dettagli, anche importanti, che non avevano inficiato il buon fine dell’operazione, nonostante la peculiarità e la novità del dispositivo interforze della missione “United Shield”, nata per necessità e portata avanti, almeno in fase iniziale, con un certo scetticismo ed una qualche preoccupazione da parte da alcuni rappresentanti degli organi centrali.

Il buon esito dell’operazione portava a far ritenere che si fosse trovata la formula idonea per poter reiterare, in caso di necessità e/o volontà, quanto attuato nella missione somala.

Ci si sarebbe aspettato, quindi, che l’operazione “United Shield” potesse costituire una buona base di partenza per poter mettere a sistema un’organizzazione per operazioni navali che prevedessero l’impiego di aeromobili d’attacco (o di esplorazione e scorta, come vengono oggi denominati gli A129), magari predisponendo, per tempo, le “realistiche e pragmatiche” modifiche necessarie (ora divenute più complesse, vista la radicale modifica della configurazione dell’attuale A129, ad iniziare dalla trasformazione da quadripala in pentapala che comporta maggiori problemi per un rapido ripiegamento del rotore).

Viceversa, come talvolta accade, nelle successive fasi di discussione e pianificazione per la realizzazione di un tale progetto, questa missione, con vari e sottili distinguo, è stata sempre ignorata. Così come è stata sottovalutata, nei fatti, l’esperienza maturata dagli equipaggi dell’Esercito nelle attività aeronavali di questo tipo.

Tante possono essere le motivazioni che hanno “consigliato” di ignorare, o quasi, questo precedente ma rimane il fatto che l’operazione “United Shied” possa essere considerata, almeno nel mio immaginario, come la “MISSIONE MAI AVVENUTA”, rimasta solo nel ricordo e nei documenti matricolari di quanti vi hanno partecipato che, con un pizzico di ragionata incoscienza e naturale orgoglio, hanno voluto e saputo completare positivamente il compito loro affidato.

 

Scroll to top