LO SPETTRO NUCLEARE TRA MASCHERA E VOLTO

Parafrasando la celebre frase con cui Karl Marx apre il “Manifesto del Partito Comunista”, potremmo dire che «Uno spettro si aggira per l’Europa; lo spettro della guerra nucleare»! E in effetti, le dichiarazioni del Presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin prima – riguardanti la messa in stato di allerta del dispositivo di deterrenza nucleare – e di quello americano Joe Biden poi – relative alla possibilità del ricorso, da parte degli Stati Uniti, al “first strike” nucleare contro la Russia – hanno gettato nel panico ampie fasce dell’opinione pubblica europea, con esiti talvolta esilaranti (come nel caso delle farmacie prese d’assalto, in Belgio e in Svizzera soprattutto, per acquistare pasticche di iodio al fine di scongiurare i rischi di cancro alla tiroide, provocato dalle radiazioni nucleari).
Il ritorno della “guerra guerreggiata” in Europa, con l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe della Federazione Russa e il ricorso all’arsenale propagandistico, urlato attraverso i più disparati mezzi di comunicazione, da parte di entrambi gli schieramenti, hanno risvegliato un fantasma che si credeva esorcizzato definitivamente.

La fine della Guerra Fredda, con la caduta dell’Unione Sovietica e il conseguente ritorno della guerra “calda” almeno in Europa ha indotto molti, non senza qualche ragione, a ritenere di poter mettere in cantina le armi nucleari per rispolverare i vecchi parametri della guerra convenzionale (peraltro, mai andata in pensione). Gli ultimi anni del secolo scorso e, soprattutto, i primi del secolo in corso, hanno dimostrato però non solo che i vecchi parametri della guerra convenzionale necessitano di un radicale aggiornamento – alla luce delle nuove guerre “asimmetriche” – ma anche che il problema delle armi nucleari è tutt’altro che risolto, in funzione della proliferazione di armi di distruzione di massa e della rincorsa nel campo civile all’energia nucleare in tanti Paesi del Terzo Mondo.
Per meglio comprendere gli sviluppi e il peso che le armi nucleari hanno assunto e assumeranno nei nuovi scenari geopolitici e in particolare nello scacchiere ucraino, in cui sono state così improvvidamente evocate, converrà ripercorrerne brevemente le tappe fondamentali sia in termini tecnici, sia in termini strategici, per considerare i paradossi di una strategia elaborata, come vedremo, più per evitare la guerra che per vincerla.

Le origini delle armi nucleari risalgono alla seconda metà della II Guerra Mondiale, in particolare agli studi di von Braun relativi alle V-2 tedesche (1944), per quanto riguarda i vettori, e ai risultati del progetto Manhattan, per quanto riguarda le testate.
Il progetto Manhattan venne avviato nel 1943 per ordine del Presidente degli Stati Uniti Roosevelt (dietro pressione di Einstein), al fine di anticipare i tedeschi nella costruzione di un nuovo ordigno che sfruttasse l’energia nucleare.
L’esito positivo degli esperimenti condotti nel deserto del New Mexico convinse il governo americano ad utilizzarla nel conflitto. Così, il 6 agosto 1945, per ordine del Presidente Truman, la prima bomba atomica venne sganciata sulla città giapponese di Hiroshima; si trattava di una bomba A all’uranio 235, con un potenziale pari a 16.000 tonnellate di tritolo, ribattezzata, con discutibile ironia, Little Boy (ragazzino). Tre giorni più tardi, il 9 agosto, una seconda bomba (Fat Man, “ciccione”, come venne ribattezzata), questa volta al plutonio 239, veniva sganciata sulla città di Nagasaki.
Le due bombe provocarono 152.000 morti e altrettanti feriti.

Nonostante gli effetti disastrosi, le due bombe, almeno in questa fase, potevano essere inserite ancora in un contesto strategico “convenzionale”: il potenziale di queste bombe, per quanto devastante, differiva solo “quantitativamente” dal potenziale delle bombe “normali”; inoltre, i bombardieri preposti a sganciarle potevano sempre essere abbattuti dalla contraerea o dai caccia nemici.
La vera “rivoluzione negli affari militari” (RMA), come sostenevano gli strateghi sovietici, si sarebbe avuta coniugando il potenziale distruttivo della bomba all’idrogeno (bomba H, o “termonucleare”) all’invulnerabilità di un missile balistico, il quale avrebbe aggirato qualunque difesa contro-aerea colpendo inevitabilmente il bersaglio, con danni pressoché incalcolabili, determinando quindi una distinzione “qualitativa” tra armi nucleari e armi convenzionali.

Tuttavia, il potenziale distruttivo dell’energia nucleare rappresentava effettivamente una discriminante rispetto agli ordigni convenzionali, soprattutto per la sua rilevanza politico-strategica: come è stato giustamente osservato, le bombe atomiche sul Giappone, lungi dal costituire l’atto finale della Seconda Guerra Mondiale, hanno rappresentato l’atto d’inizio della “Guerra Fredda”!
Gli Stati Uniti, che per circa un decennio hanno detenuto il monopolio o quanto meno la supremazia nelle armi nucleari, non hanno esitato a sfruttarne il peso diplomatico. La Guerra Fredda era ormai inequivocabilmente cominciata, e i sovietici non tardarono a compensare il gap che li separava dagli americani. Nel 1949 l’URSS sperimentò la sua prima bomba atomica nel poligono siberiano di Kurciatov. Inizia a questo punto una corsa al rilancio, sul piano tecnologico, che andrà avanti, ufficialmente, fino alla caduta del muro di Berlino, e, ufficiosamente, continua tutt’ora.

Gli americani consapevoli che l’esperimento sovietico costituiva un serio attacco alla loro “leadership nucleare” risposero nel 1952 con l’esplosione della prima bomba all’idrogeno (bomba H, o “termonucleare”) nel Pacifico, a cui i sovietici non tardarono a replicare, nel ’53, con la loro prima bomba H.
Nel gennaio 1953, con il passaggio di consegne tra il presidente Truman e il presidente Eisenhower, già erano chiari i tratti distintivi della nuova strategia nucleare:
1) il ruolo principale di un arsenale nucleare consiste nello scoraggiare il nemico dall’utilizzare il suo (dissuasione);
2) a parità di condizioni, gli arsenali nucleari si neutralizzano a vicenda, pur senza essere effettivamente impiegati (la veridicità di questo secondo concetto sarebbe emersa soprattutto negli anni successivi).
Una prima formulazione della strategia nucleare si ebbe nel gennaio 1954, con la dottrina della rappresaglia massiccia (“massive retaliation”): in sostanza, questa dottrina prevedeva, in caso di attacco anche solo convenzionale e limitato, la possibile distruzione dei centri “vitali” (infrastrutture, catena di comando) del nemico mediante il ricorso ad armi nucleari.
Appena due anni dopo la sua formulazione, nel 1956, in considerazione delle pesantissime ricadute sul piano politico-militare che questa dottrina comportava, si rese necessaria una revisione radicale dei parametri strategici. Questa revisione era orientata ad abbandonare il sogno di una superiorità nucleare americana e a fondare le basi di quel famoso equilibrio del terrore, che avrebbe costituito il fondamento della “stagnazione” internazionale dei decenni successivi.

Gli effetti catastrofici che le armi nucleari strategiche avrebbero provocato in Europa spinsero gli Stati Uniti ad elaborare armi e strategie per una guerra nucleare limitata. È in quest’ottica che vennero sviluppate le armi nucleari tattiche (o “da teatro”, o “da campo di battaglia”): armi a corto raggio dal potenziale distruttivo più contenuto rispetto a quelle strategiche.
Il 1957 segnò definitivamente la fine della “relativa” tranquillità degli Stati Uniti, legata alla loro supremazia nel settore nucleare con l’introduzione dei missili balistici intercontinentali. Consapevole di questi rischi l’America rivedeva le concezioni precedenti introducendo nuovi concetti strategici, in particolare il principio di primo colpo (“first strike) e secondo colpo (“second strike”). Il primo colpo consiste in un attacco volto a distruggere le capacità di rappresaglia del nemico. Le forze impiegate per questo attacco non è necessario che siano “invulnerabili”; tuttavia, proprio in virtù della loro vulnerabilità, c’è il rischio di cedere alla tentazione di usarle “prima” che il nemico sferri il suo attacco. Il secondo colpo consiste invece nell’incassare il primo colpo del nemico, mantenendo la capacità di scatenare contro di lui una massiccia rappresaglia.

Naturalmente, conditio sine qua non perché si possa disporre di forze di secondo colpo è che queste siano invulnerabili all’attacco del nemico.
Il fatto che la realizzazione di questa logica, per certi aspetti, perversa, potesse condurre i due contendenti, “loro malgrado”, ad uno scontro nucleare, fece emergere prepotentemente l’importanza del concetto di stabilità e di stallo nucleare, in virtù del quale entrambe le potenze dovevano possedere armi di rappresaglia invulnerabili. In sostanza, il possesso, da parte di una delle due potenze, di armi di rappresaglia invulnerabili costituiva paradossalmente la garanzia di sicurezza dell’altra potenza; pertanto, “tranquillizzare” il nemico circa l’invulnerabilità del suo arsenale di rappresaglia nucleare era importante tanto quanto assicurarsi l’invulnerabilità del proprio arsenale (un nemico “tranquillo” è un nemico meno pericoloso).

Il 1967 vide pertanto una nuova dottrina nucleare, nota come strategia della risposta flessibile.
Il concetto che questa strategia presuppone è quello di controllo dell’escalation. È, questo, un concetto fondamentale e un denominatore comune di tutte le riflessioni teoriche inerenti la strategia nucleare.
Nel 1983, il presidente Reagan annunciò il programma, divenuto famoso con l’espressione di “guerre stellari”, o “scudo spaziale” (tornato d’attualità proprio in occasione del conflitto russo-georgiano del 2008), in base al quale un colossale sistema di intercettazione collocato nello spazio avrebbe dovuto neutralizzare «la terrificante minaccia dei missili sovietici». Si trattava di un progetto eminentemente “difensivo” definito tecnicamente Strategic Defense Initiative (SDI) .
Il progetto non fu realizzato, la tensione che aveva generato si risolse nell’ennesimo falso allarme, e gli analisti e gli strateghi più avveduti riconobbero che, per l’ennesima volta, la minaccia che lascia qualcosa al caso continuava ad essere uno degli assi portanti della strategia nucleare.
Alla fine degli anni ’80, alla vigilia dunque della caduta del muro di Berlino e del blocco sovietico, la strategia nucleare, continuando a oscillare tra guerra limitata e distruzione assicurata, tra armi selettive come la bomba N (al neutrone, annienta le persone ma non le cose) e armi dal potenziale distruttivo catastrofico come il “super-missile” MX, non era riuscita ancora a definire con precisione e sicurezza cosa fare una volta superata la soglia nucleare.

A sciogliere, sia pure parzialmente, il dilemma intervenne la storia: nel biennio 89-91 l’impero sovietico, il “grande nemico” crollava e con esso anche l’eventualità di un conflitto nucleare tra le due super-potenze subiva un drastico ridimensionamento – non fosse altro perché di super-potenza ne restava soltanto una.
La Russia ereditava in toto l’arsenale nucleare dell’Unione Sovietica, con il nulla osta dell’Occidente in quanto la stessa nell’URSS aveva fatto la parte del leone per quasi 50 anni rivelandosi un “interlocutore nucleare affidabile”; cosa che non si sarebbe potuta affermare con certezza delle tante repubbliche, più o meno autonome, formatesi dalla frammentazione dell’Unione Sovietica, nel caso avessero ereditato parte dell’arsenale nucleare.

La NATO, nei Summit di Londra (luglio 1990) e di Roma (novembre 1991), mandava ufficialmente in soffitta la dottrina della risposta flessibile e con essa la speranza (o l’illusione) della guerra nucleare limitata, e stabiliva un «deterrente nucleare minimo» da mantenere in Europa, quantificato in 500 testate – dalle 7000 presenti durante la Guerra Fredda.
Lo spettro nucleare, che qualcuno, frettolosamente e superficialmente, aveva creduto di poter riporre nel “dimenticatoio”, è riapparso però in forma più subdola, meno eclatante, ma non per questo meno pericolosa: si tratta della proliferazione nucleare nel Terzo Mondo.
All’India si è aggiunto il Pakistan (1998), primo e, per il momento, unico Paese islamico a essersi dotato di un arsenale nucleare; la Corea del Nord – è cronaca di questi giorni – possiede una tecnologia avanzata e un arsenale sperimentato in questo settore (tra 10 e 20 testate nucleari), e il programma nucleare iraniano, ufficialmente sviluppato per scopi civili, desta forti preoccupazioni negli ambienti politico-militari occidentali; in Medio Oriente si fanno sempre più forti le pressioni da parte di Paesi “amici” dell’Occidente, come Egitto e Arabia Saudita, per sviluppare un proprio programma nucleare, da poter contrapporre a quello iraniano.

Proprio in questo delicato scacchiere, va ricordato l’arsenale nucleare israeliano, conosciuto solo in via ufficiosa anche se mai riconosciuto ufficialmente dalle autorità israeliane.
La proliferazione di armi nucleari e, in generale, di distruzione di massa, nel Terzo Mondo, costituisce un grave problema: dalle mani di leader poco affidabili, queste armi potrebbero “scivolare” in quelle di organizzazioni terroristiche transnazionali che potrebbero utilizzarle, eventualmente, contro i contingenti delle missioni internazionali, o anche per attentati “in grande stile” nelle città occidentali (le cosiddette bombe sporche, come vengono chiamate le armi di distruzione di massa “fatte in casa”), con effetti devastanti non solo dal punto di vista materiale, ma anche e soprattutto dal punto di vista psicologico, con tutte le conseguenze che ne derivano (vedi l’attentato nella metropolitana di Tokyo, nel ’95, con il gas nervino “sarin”).

In quest’ottica, si sta cercando di correre ai ripari, tornando a privilegiare le armi “tattiche”, o, come vengono definite oggi “sub-strategiche” di dimensioni contenute e molto precise, da utilizzare per la difesa dei contingenti militari in missione all’estero, e, in maniera preventiva, per attacchi mirati contro installazioni nucleari dei Paesi “proliferatori”.
Di fatto, il problema è molto complesso dal punto di vista tecnico, ed estremamente delicato dal punto di vista politico.
A questo punto converrà puntualizzare i principi cardine della strategia nucleare, che sono emersi in questa breve analisi della sua evoluzione.

La strategia nucleare è, se non paradossale, quanto meno anomala rispetto alla strategia convenzionale; mentre quest’ultima consiste nella gestione dell’impiego della forza, la strategia nucleare consiste nella gestione del suo “non-impiego”. È un po’ quello che avviene nei combattimenti tra animali di grandi dimensioni: quanto più ingenti sono i danni che ciascuno potrebbe infliggere all’altro, tanto più il combattimento si risolve in un’ostentazione ritualizzata di potenza, dal momento che un combattimento effettivo potrebbe risultare fatale per entrambi. La guerra nucleare, o meglio, il suo timore, è una sorta di “guerra psicologica”; come dire: “mostrare la forza per evitare di usarla”.
Mai come nella strategia nucleare si è vista la realizzazione di uno dei principi più importanti della dottrina di Karl von Clausewitz – considerato il padre della strategia convenzionale moderna – che la dinamica della guerra, più che al gioco degli scacchi, è riconducibile al gioco delle carte. E la guerra nucleare – con le sole, tragiche eccezioni di Hiroshima e Nagasaki – questo è stata: un gioco d’azzardo, una partita a poker in cui, in alcune circostanze, si è costretti a rilanciare, visto che non si può abbandonare il tavolo da gioco e non si può “andare a vedere”. Questo, talvolta, può determinare un circolo vizioso una “escalation” inevitabile che, finchè si limita – come è avvenuto finora – a “fare la voce grossa”, porta all’equilibrio e, in definitiva, alla stagnazione. Questo perché la strategia nucleare non è una strategia per combattere la guerra, ma per evitarla. È una strategia di guerra psicologica, ma particolare, perché le tecniche utilizzate sono le stesse per entrambi i contendenti, quindi, in un certo senso, “tutto alla luce del sole”. Per tornare alla metafora del poker, è un “bluffare a carte scoperte”: un far credere all’avversario che si è capaci e determinati a infliggergli chissà quali perdite, pur rassicurandolo che non si ha alcuna intenzione di farlo. E allora, perché non mettersi d’accordo e smetterla? Perché il primo che avanzasse una simile ipotesi dimostrerebbe debolezza, e quindi risulterebbe virtualmente sconfitto.

Come è stato giustamente osservato, nell’era nucleare, il vero nemico è la guerra; i due nemici, in quest’ottica, rischiano di diventare paradossalmente alleati, sia in caso di equilibrio delle forze, sia in caso di supremazia di uno sull’altro, tant’è vero che si cerca subito di ristabilire l’equilibrio, che è la vera garanzia di pace. Di fatto, le armi nucleari sembrano fatte per neutralizzarsi a vicenda; è il paradosso di armi che, una volta inventate, non possono essere usate, o meglio, che pare siano state inventate “proprio per non essere usate”. Quella che emerge dalla strategia nucleare è una dinamica “a specchio”, che porta a “impattare” una partita “non giocata”.

La strategia nucleare è, paradossalmente, una strategia “pacifista”, ma solo nel momento in cui entrambi i contendenti sono dotati di armi atomiche, e queste sono distribuite più o meno equamente tra i due, in virtù di quell’equilibrio che, sia pure del terrore, ha garantito all’Occidente quasi 50 anni di pace; certo, una pace armata, fondata sulla reciproca paura più che sulla reciproca amicizia, ma non per questo meno efficace: mai l’Europa aveva vissuto un periodo così lungo senza conflitti armati sul suo territorio.
Poi, la rottura dell’equilibrio bipolare ha drammaticamente ricordato agli europei che la guerra esiste, e non solo per gli altri: all’indomani della caduta del Muro di Berlino, le bombe sono tornate a esplodere sul territorio europeo con i conflitti balcanici nella ex-Jugoslavia, che a più riprese sono stati anche delle “guerre per procura” tra Stati Europei, nonché tra le due superpotenze (ex, per quanto riguarda la Russia).

Da due mesi a questa parte, una guerra “quasi civile” vede contrapposte, sul campo di battaglia, la Russia e l’Ucraina, ma, sul più ampio scacchiere politico-strategico, vede lo “zio Sam” con i suoi nipotini (NATO, Unione Europea e mondo occidentale in generale) e l’orso russo” con malcelate nostalgie della trascorsa potenza sovietica e con la preoccupazione dell’estensione dell’Alleanza Atlantica ai quei paesi Ucraina e Georgia che costituiscono la sua “cintura di sicurezza”.

Agitare lo spauracchio delle armi nucleari è una mossa che rientra a pieno titolo nell’arsenale della strategia nucleare, inserendosi nell’orizzonte razionale del controllo dell’escalation. Lawrence Freedman (eminente stratega inglese) sintetizza efficacemente questa “irrazionalità controllata” con il gioco del “fifone” (chicken – tipico gioco da “gioventù bruciata” americana degli anni 50-60): due automobili si dirigono ad alta velocità una contro l’altra; il primo che svolta per evitare lo scontro (il “fifone”, appunto) perde.

Morale della favola: chi fa finta di essere pronto a giocarsi il tutto per tutto, fino alle estreme conseguenze, vince.

Questa sembra essere stata la tattica vincente adottata da Kennedy nella crisi dei missili a Cuba nel 1962 (e che, in definitiva, costò a Krusciev la carica di Segretario Generale del Partito).
In tutto questo gioco di bluff e contro-bluff, chi ne fa le spese è il sistema nervoso dell’opinione pubblica più sprovveduta che, invece delle inutili pasticche di iodio, avrebbe bisogno dei più efficaci neurosedativi.

La cosa migliore, sarebbe un’adeguata preparazione culturale, volta proprio ad aprirle gli occhi e a smascherare quelle tecniche di manipolazione delle masse con cui i leader politici, da sempre, cercano di controllarla. Questi fenomeni di isteria collettiva “programmata a tavolino” sono comunque funzionali alla strategia nucleare, proprio per evitare il ricorso effettivo all’arma atomica.
Che piaccia o no, le armi nucleari ci sono, e non saranno certo le politiche “dello struzzo” o irrazionali atteggiamenti di demonizzazione che ci consentiranno di gestirle meglio. Anche e soprattutto alla luce dei nuovi scenari geopolitici, dobbiamo re-imparare a farci i conti; anche perché le armi nucleari oramai esistono e come diceva Robert Oppenheimer «un’invenzione non può essere disinventata».

di Sergio Buono

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