Il mare: una speranza per il futuro da tutelare

Il mare rappresenta i sette decimi del globo terreste. Senza di esso e senza le acque dolci non vi sarebbe l’umana esistenza. Fonte di vita e di nutrizione per l’uomo ha sempre stimolato la fantasia e la letteratura con poesie, poemi, libri, racconti e canzoni sin dall’antichità. Enumerarli, anche solo in una piccola parte, sarebbe ben ardua impresa. Uno per tutti, ricordiamo alcuni versi che sommo Poeta ha dedicato ad Ulisse.

Pone nella bocca dell’acheo, tra gli altri, i seguenti (Canto XXVI dell’Inferno, Ottavo Cerchio dei Consiglieri Fraudolenti):
“mi misi per l’alto mare aperto 100
sol con un legno e con quella compagnia
picciola dalla qual non fui diserto.”
“Io e’ compagni eravam vecchi e tardi 106
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercole segnò i suoi riguardi,”
“e volta nostra poppa nel mattino 124
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.”
“ché da la nova terra un turbo nacque, 137
e percosse del legno il primo canto”
“tre volte il fé girar con tutte l’acque; 139
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.” 142
Il mare raffigura anche l’ignoto ed un rischio da non sottovalutare; in particolare lo era per il passato sia nella realtà sia nelle narrazioni della letteratura e nelle raffigurazioni delle arti. Prima delle grandi scoperte geografiche il mare era commercio, comunicazioni, ma molto spesso naufragi, pirati, battaglie navali (lo è tutt’ora in misura molto ridotta rispetto al passato). Un mix di utilità e pericolo.
Se con questa breve introduzione si è parlato del mare sotto l’aspetto poetico, è opportuno riflettere su come tutelare questo immenso bene (sia spaziale sia valoriale) vitale ed essenziale per la nostra sopravvivenza e, soprattutto, delle generazioni future.
L’estensione delle superfici delle acque ha indotto, erroneamente nel secolo scorso, a modelli di sviluppo almeno miopi e predatori. Nulla in natura è inesauribile e nulla non è soggetto a degrado per l’intervento (infausto) dell’uomo.
Nel 2015 l’ONU ha individuato tra i “Sustainable Development Goals (SDGs)”, Obiettivi sostenibili di sviluppo (Agenda 2030), i seguenti: “Conservare ed utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”. Più specificatamente il documento evidenzia: “Gli oceani del mondo – la loro temperatura, la loro composizione chimica, le loro correnti e la loro vita – influenzano i sistemi globali che rendono la Terra un luogo vivibile per il genere umano. L’acqua piovana, l’acqua che beviamo, il meteo, il clima, le nostre coste, molto del nostro cibo e persino l’ossigeno presente nell’aria che respiriamo sono elementi in definitiva forniti e regolati dal mare. Nel corso della storia gli oceani ed i mari sono stati e continuano ad essere canali vitali per il commercio ed il trasporto. Un’attenta gestione di questa fondamentale risorsa globale è alla base di un futuro sostenibile”. Parole oltremodo palesi ed efficaci che non lasciano dubbio alcuno sul legame tra “uomo e mare ed acqua più in generale” e sul pochissimo tempo che l’umanità ha per rivedere i propri modelli di sviluppo in chiave di “sostenibilità”, se vuol lasciare alle generazioni future un pianeta vivibile e non in via di estinzione per improvvide scelte.
Anche in ambito Unione Europea vi sono state iniziative volte ad indirizzare le politiche nazionali verso uno “sviluppo sostenibile” ma, come a livello globale, le risposte degli ultimi anni sono state insufficienti (Italia compresa). Non sono mancate le opere di sensibilizzazione scientifica nei confronti dei cittadini evidenziando i benefici di un “mare pulito” e, più in generale, di un “ambiente pulito”. Indubbiamente si sta affermando una maggiore consapevolezza da parte di tutti su tali problematiche, in particolare tra i giovani, poiché la loro vita dipenderà dal mondo che gli si lascerà in eredità. La popolazione del globo, in base ai sondaggi degli ultimi anni, è sempre più sensibile alle prospettive ambientali che vogliono dire anche migliori sistemi alimentari e sanitari. La salute umana è il contraltare della salute della Terra. Purtroppo è ancora poco perché occorre un’imponente accelerazione nel porre in essere le adeguate misure di contenimento al degrado ambientale in essere.
Il mare produce il 50% dell’ossigeno che respiriamo; i “polmoni delle terra” sono i mari e le foreste.
Il mare assorbe il 30% del gas serra, il 90% del calore immesso in atmosfera e tenta di riequilibrare il clima terrestre.
Lo dimostrano i progressivi e pericolosissimi scioglimenti di aree ghiacciate (un tempo denominati “ghiacciai eterni”) con conseguenze climatiche e danni all’ecosistema dovuti al riscaldamento terrestre. Si pensi ad un quasi certo innalzamento dei mari a livello globale: quante terre verranno sommerse, quante città potrebbero sparite od arretrare, quanti animali non avranno più il loro habitat (orsi polari, foche, pinguini, ecc.)? Solo un elenco molto parziale.
Abbiamo già in atto una perdita di biodiversità che potrebbe divenire inarrestabile. Oceani più caldi significano una loro maggiore acidità, la perdita di produttività e di vivibilità per le specie che li abitano. Gli eventi metereologici estremi sono sempre più frequenti e violenti (tempeste, tifoni, uragani) con vittime crescenti e danni economici molto rilevanti. Altra parte è imputabile ai dissesti idrogeologici e, più in generale, geologici conseguenti a sconsiderati interventi dell’uomo (purtroppo in Italia ne abbiamo esempi in abbondanza).
Mare vuol dire trasporti, comunicazioni mediante cavi sottomarini, pesca, turismo e molto altro. Tradotto: commercio ed economia si intersecano a livello mondiale.
Il “mare nostrum” è anche il motore di sviluppo dell’economia europea; vi insistono circa 450 porti e vi opera quasi la metà della sua flotta peschereccia. Occorre fare attenzione però al sovrasfruttamento delle risorse ittiche; troppo spesso non si rispettano i tempi che la natura detta per il ciclo riproduttivo delle specie marine.
Non certo si deve tralasciare l’importanza e lo studio di quello che viene definito il “deep sea”, ovvero i fondali più inaccessibili ma che interagiscono con il mare che possiamo osservare; si potrebbe pensare che tali profondità non subiscano danni ma è certo l’esatto contrario.
Lo sviluppo della tecnologia ci sta conducendo ad una maggiore conoscenza delle profondità estreme ma anche alla prospettiva di un “deep sea mining”, ovvero la ricerca nei fondali degli abissi di materiali speciali e terre rare; in prospettiva verrebbero impiegati come miniere marine.
In assenza di una adeguata regolamentazione internazionale potrebbero prodursi effetti devastanti ed irreversibili per il mare; la storia, purtroppo, ci insegna quanto le regolamentazioni internazionali siano troppo spesso disattese ad ogni livello.
I mari sono stati, e sono (purtroppo), considerati una sorta di “cassonetto dei rifiuti” dove sono stati, e sono, smaltiti i prodotti di risulta di processi industriali, agricoli, urbani.
Tra i fenomeni maggiormente da evidenziare si rimarcano:
lo smaltimento nelle acque di sostanze tossiche, prodotti chimici, metalli pesanti. Gli scarti di processi industriali non degradabili, una volta immessi nelle acque, si combinano ed interferiscono con i cicli vitali degli organismi viventi del mare. Ne deriva che i grandi predatori del mare (tonni, squali, delfini ed altre specie) concentrano le tossicità di tutti gli altri organismi dei quali si sono nutriti, giungendo sino all’uomo. Rifiuti chimici, biologici, radiologici e nucleari sono stati illecitamente smaltiti nei mari (Mediterraneo compreso); addirittura alcune isole al largo delle coste africane sono stare acquistate ufficialmente per scopi turistici ma, di fatto, sono divenute discariche di tutto, particolare di rifiuti pericolosi;
l’incremento dei sali nutritivi: contribuisce a determinare la salinità delle acque, delle sostanze organiche e genera una crescita abnorme delle alghe. Ciò è conseguenza dell’immissione nelle acque di detersivi e scarichi fognari. Tali fenomeni si evidenziano prevalentemente in specchi d’acqua poco profondi o bacini chiusi dove il ricambio di acqua è insufficiente;
gli scarichi accidentali di petrolio dovuti a naufragi, ad incidenti ed a “lavaggi” in mare delle navi petrolifere. Non di rado scarichi petroliferi raggiungono le coste con danni ittici, turistici ed altro;
i prodotti farmaceutici che, una volta acquisiti da organismi marini, possono trasferirsi, attraverso la catena alimentare, all’uomo. Il Prof. Francesco Regoli dell’Università Politecnica delle Marche ha affermato: “nonostante i notevoli progressi nella farmacologia umana e veterinaria rappresentarono certamente uno dei maggiori vantaggi della società moderna, il loro enorme consumo e la loro rimozione spesso inadeguata dagli impianti di trattamento delle acque reflue determinarono un aumento della presenza di tali composti che sono ora rilevati in tutto il mondo negli ecosistemi acquatici. In un recente sondaggio sulla presenza di prodotti farmaceutici nelle cozze mediterranee, oltre il 90% degli organismi prelevati da diversi siti costieri contenevano nei loro tessuti apprezzabili quantità di farmaci antinfiammatori, antiepilettici, antiipertensivi, ansiolitici ed antidepressivi”;
le emissioni di rumori e le vibrazioni in mare possono interferire con la vita degli organismi marini limitando le loro comunicazioni, come nel periodo riproduttivo o, semplicemente, per segnalare tra loro pericoli. Tutto ciò ne muta i comportamenti e spinge a migrazioni che alterano l’ecosistema marino. Questi rumori e vibrazioni sono generati da esplosioni, traffico navale, attività scientifiche o militari ed altro;
l’inquinamento da plastiche: sicuramente è il più grave fattore di contaminazione per l’ambiente marino. I rifiuti plastici sono presenti ovunque negli oceani e le isole remote sono la cartina al tornasole maggiormente efficace per avere il polso dello smisurato volume dell’accumulo di tali rifiuti. Le Isole Cocos (Oceano Indiano, circa 2.000 km dalla costa nord occidentale dell’Australia) presentano tra i maggiori accumuli di plastiche (circa 238 tonnellate: scarpe, borse, spazzolini, bottiglie, posate ed altro); la parte coperta sotto i primi 10 centimetri di sabbia è ben 26 volte superiore alla parte visibile. L’atollo Henderson Island (teoricamente patrimonio dell’Unesco) è stato inghiottito dai rifiuti plastici, che hanno raggiunto anche i due Poli e le profondità marine. Purtroppo gli esempi potrebbero continuare a lungo.
Come tutti ricordiamo, la plastica entrò nei cicli produttivi e di consumo intorno alla metà degli anni cinquanta del XX secolo in virtù di caratteristiche quali: leggerezza, plasmabilità, durata, resistenza ed indistruttibilità.
I benefici sono stati innegabili ma hanno anche indotto il tanto esaltante quanto deleterio mito: “usa e getta” (pubblicizzato in tutte le salse per decenni). Ora dobbiamo affrontare i problemi generati, e che genera, l’accumulo di un materiale con tempi abnormi di decomposizione, proprio le sue caratteristiche di “durata, resistenza ed indistruttibilità”.
Alcuni studi parlano di otto milioni di tonnellate che ogni anno vengono riversati nei mari. Si stima che se ne siano stati accumulati circa 150 milioni di tonnellate, pressappoco 80% dei rifiuti totali. La problematica è almeno drammatica, considerato che il monouso non accenna a contrarsi ed il suo riciclo è raro poiché viene, prevalentemente, disperso nell’ambiente. Anche l’Unione Europea fa la sua parte; si stima che produca rifiuti plastici tra le 150.000 e le 500.000 tonnellate, smaltiti prevalentemente nel Mar Mediterraneo e nel Mar Glaciale Artico. Particolarmente grave è la situazione del “mare nostrum” dove le plastiche rappresentano oltre l’80% dei rifiuti spiaggiati (svettano i bastoncini cotonati ed altri prodotti “usa e getta”) con gravi ripercussioni sul turismo, sulla pesca, sul trasporto marittimo, oltre che sull’ambiente. Il Mediterraneo rappresenta circa l’1% dei mari del globo terrestre ma “accoglie” circa il 7% dei rifiuti plastici. Superfluo evidenziare i rischi per la salute umana, oltre che per l’ambiente, delle persone che vivono lungo le sponde del Mediterraneo e si cibano in misura consistente dei suoi prodotti. Le microplastiche ingerite dalla fauna marina (come i prodotti ittici) entrano nella catena alimentare (plastica e quant’altro che assorbiamo mangiando). Se nel pesce, che è parte rilevante della nostra nutrizione, vi sono plastiche (fatto purtroppo indiscutibile) c’è di che preoccuparsi, e non poco. L’inquinamento da microplastiche, nella sostanza dei fatti, è incalcolabile, irreversibile, invisibile e rappresenta una delle più serie minacce per l’ecosistema e per la salute l’uomo.
Di recente si è aggiunto (non ve ne era certo bisogno) lo smaltimento di mascherine e guanti utilizzati per l’emergenza pandemica da covid-19. Le spiagge sono già costellate di tali rifiuti non biodegradabili.
Istituzioni internazionali quali ONU, UNESCO ed UE (con il “Green Deal”), come già accennato in apertura, hanno elaborato specifici programmi per armonizzare lo sviluppo socio-economico con l’ambiente coinvolgendo scienziati, politici, economisti, mondo produttivo, società civile.
Si parla di limitazioni all’uso delle plastiche, rivisitazione della loro composizione (una più elevata percentuale riciclabile), tracciabilità dei materiali, raccolta differenziata sempre più corretta ed in maggior misura, controllo degli smaltimenti nei porti (pesca e commercio legato al traffico marittimo), sensibilizzazione del cittadino utente finale (che contribuisce in modo rilevante al corretto riciclo).
Molti interventi delle Autorità nazionali sono indirizzati ad escludere taluni materiali e composti nella produzione di beni, nell’intento di ridurre le componenti plastiche e di altri prodotti non biodegradabili (saponi, dentifrici, cosmesi ed altro).
Occorrono la condivisione degli obiettivi, la risolutezza nel contrasto all’inquinamento (marino e non, perché troppo finisce nei mari), individuare soluzioni scientifiche, programmare una gestione sostenibile delle acque, concentrarsi su una “governance” condivisa degli oceani, coinvolgere la popolazione nelle scelte ecologiche, diffondere la cultura della tutela ambientale attraverso ogni mezzo, promuovere la prassi delle 3R (riduci, ricicla, riusa). Progetti globali e complessi per i quali non esiste un attimo da perdere o per rimandare ad un futuro che è già dentro di noi, se non alle nostre spalle.
Le crisi climatiche ed ecologiche che quotidianamente tocchiamo con mano sono una priorità per le agende politiche che dovranno, nell’immediato, elaborare risposte alle crisi globali ambientali e sanitarie, uniche chiavi di volta per la sopravvivenza ed il benessere sociale.
Comunque, ogni buon proposito non può avere efficacia senza un reale impegno dei governi nazionali, senza rigidi controlli e sanzioni a livello produttivo e di consumo, non escluso l’utente finale (cittadino).
Come sempre, l’uomo è l’artefice del proprio futuro e del proprio benessere (o malessere).
Fonte: Gnosis n. 3/2020

di Giuseppe Bodi

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