1974 Tutti i giorni l’ebbrezza del volo

di Gennaro De Grado

Terminato il corso allievi ufficiali e nominato sottotenente, inizio il mio servizio di artigliere, servizio che però non mi piace eccessivamente. Vedo in quel di Casarsa tanti elicotteri ed aerei e realizzo che questo è il mio lavoro. Con la caparbietà che mi distingue, riesco a diventare pilota prima di aerei e poi di elicotteri e, anche se il servizio di pilota dell’esercito non è come quello dell’aeronautica, comincio a gioire dell’ebbrezza del volo, ad assaporare le moltissime soddisfazioni che il mestiere procura. Una volta alzati dalla sedia dell’ufficio, dimenticate le preoccupazioni del lavoro sedentario e le responsabilità di comandante di uomini e mezzi, mi alzo in volo con il mio velivolo e dimentico, devo dimenticare tutto. A volte mi trovo con un equipe di medici trasportando un cuore per un trapianto, a volte con la fronte sudata vicino ad uno strapiombo a recuperare un alpinista incrodato ad una parete, a volte a ricercare un escursionista smarrito, a volte ad attraversare la bellissima nostra penisola. Fra i tanti episodi vissuti voglio ricordarne alcuni.

Sono le cinque del mattino, è ancora buio. Con il cuore carico di ansia mi alzo in volo. Le prime luci dell’alba mi trovano mentre sto sorvolando Gemona; ma…. ma dov’è Gemona? Lo spettacolo che mi si offre è terrificante, dove c’erano le case ci sono solo macerie, si vede la gente che si agita rovistando, scavando, cercando nelle case ormai distrutte i loro cari. Sono sulla scena del terremoto; non ho mai visto niente del genere; relaziono via radio al mio comando cosa è successo, non so cosa pensare ed assorto in tanti dubbi farfuglio: “Qui è un macello, penso…. penso che serva tutto”. I giorni passano e sento che sto facendo il mio dovere; mi piace aiutare al limite delle mie forze il mio prossimo, tanta gente che non ha più niente di suo, che ha perso tutto e che a volte ha perso i suoi cari; mi piace capire che questa gente sente nel frullio del mio rotore la solidarietà di tanta gente disposta ad aiutare, disposta a dare del suo, propensa a sacrificare il suo tempo, le sue energie per sollevare la tristezza, la precarietà, le sofferenze ed il dolore di chi da un momento all’altro è diventata diversa da noi, gente che ha perso il sorriso, ma non la speranza. La scena si ripete sull’Irpinia, ma io non ci ho fatto ancora l’abitudine. Cambia la latitudine, cambiano le persone, ma la sofferenza è la stessa, il bisogno lo stesso, il mio aiuto ha la stessa intensità.

Natale 74. Ricevo una lettera di questo tenore: “Mentre mi trovavo solo sulla cima di quella montagna, con il mio cuore che non voleva più saperne di fare il proprio dovere, ho pensato che ormai ero vicino alla morte, che non avrei più rivisto la mia famiglia. Ma lei mi ha dato la possibilità di passare con essa anche questo Natale. Non posso far altro che dirle : grazie ! e…” La conservo ancora con tanto amore, e ricordo. Sono decollato da Venaria Reale per recarmi sulle montagne liguri ove è stata segnalata la presenza di un uomo in difficoltà probabilmente a causa di un infarto. Dopo quasi un’ora di volo giungo in vista del luogo ed inizio la manovra d’atterraggio. Sento che qualcosa non mi soddisfa nella potenza del motore, ma non so cosa sia; atterro comunque, tanto, penso tra me e me, devo decollare solo con due persone e con meno carburante. A terra trovo il medico che mi dice che l’uomo è in pieno infarto e che da un momento all’altro il cuore potrebbe cessare di battere. Occorre portarlo subito all’ospedale, però durante il viaggio necessita la presenza del medico per un eventuale probabile massaggio cardiaco. Che fare? Sospetto che l’elicottero, come accertato in seguito, non sia perfettamente a posto, che possa non disporre di tutta la potenza necessaria; ma non c’è tempo. L’infartuato, nella sua sofferenza, sembra supplicare affinché faccia qualche cosa per lui. Decido allora di provare, ma nel momento di alleggerire l’elicottero e decollare, mi accorgo che i miei timori sono fondati. Rinuncio a trasportarlo? In un momento di indecisione, lo vedo soffrire, vedo il medico preoccupato, che faccio? Concentro al massimo la mia attenzione a ricordare tutte le precauzioni insegnatemi per effettuare il decollo con la minor potenza possibile e con parsimonia tiro il collettivo, faccio strisciare il velivolo sul cucuzzolo su cui mi ero appoggiato e nel mentre vedo i giri del rotore inesorabilmente calare mal supportati dalla ridotta potenza del motore, un rigagnolo di sudore freddo mi corre lungo la schiena, mi butto nel burrone sotto di me e cerco di recuperare i giri persi. Pian piano, richiedendo meno potenza del decollo ormai concluso, l’elicottero sembra respirare e vedo la lancetta dei giri rotore, dalla quale non ho mai staccato gli occhi, riprendere e riportarsi in campo normale. Dopo quarantacinque minuti atterro in ospedale con il più bell’atterraggio fatto in vita mia. “Tutto bene,” faccio al dottore, come se avessi appena terminato di fare una partita a carte. Tutto bene, ora che siamo in ospedale spero che le cose vadano meglio, forse se la caverà; è stata veramente una bella esperienza.

Il mio lavoro non è stato soltanto bello ed edificante; ho avuto anche maniera di sentirmi in difficoltà; di dovermi aggrappare alla speranza di riabbracciare mia moglie ed i miei figli.

E’ stato tutto un susseguirsi di sensazioni forti, di gioie e di dolori, di esaltazioni e di paure, ma ne è valsa la pena. Se dovessi tornare indietro? Sceglierei sicuramente lo stesso lavoro.

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