A VOLTE RITORNANO…!

Breve analisi di un ritorno annunciato

L’atmosfera con cui, in Occidente, l’opinione pubblica e la maggior parte dei leader hanno accolto la notizia della (ri)presa di Kabul, da parte dei talebani dopo 20 anni di guerra, ricorda veramente il titolo del libro di racconti dell’orrore del maestro del genere, Stephen King “A VOLTE RITORNANO”, da cui poi è stato tratto anche un film di successo. Lo stupore generale, se è comprensibile da parte dei non addetti ai lavori, stona alquanto da parte di alcuni leader e dai cosiddetti “esperti” che in fretta e furia hanno vestito i panni dei profeti ex post, affermando di aver previsto tutto ciò, un po’ come dei novelli Nostradamus che profetizzano gli eventi quando sono già accaduti…
In realtà chiunque abbia “bazzicato” un po’ l’Afghanistan, per lavoro o anche solo per interesse personale e con un briciolo di competenza, sapeva bene che quella di Kabul, da parte dei talebani, era una (ri)conquista annunciata a cui ben si attaglia il socratico adagio “tanto tuonò, che piovve…”.


La particolarità di questa rentrèe da parte degli studenti coranici va ricercata semmai nella rapidità con cui si sono succeduti gli eventi “previsti”, con un’accelerazione che questa volta ha colto sì di sorpresa anche gli esperti “veri” e nel fatto che, per tornare al film dell’orrore con cui abbiamo aperto questa trattazione, “le anime dei trapassati”, interpretati per l’occasione dai talebani, sono tornate perché evocate da una sorta di “seduta spiritica” messa in atto da una serie di attori della scena politica internazionale e che poi sono caduti dalle nuvole (o hanno fatto finta) quando i fantasmi da loro evocati si sono materializzati.
Per molti aspetti possiamo dire che la cosiddetta “alta politica” internazionale è riuscita a riportare indietro le lancette della storia di 20 anni, minuto più minuto meno. Ma ci sono diverse novità che, a cavallo della “riconquista” talebana, hanno fatto e stanno facendo il loro ingresso nello scenario afghano (e non solo): altri fantasmi, evocati dalla seduta spiritica di cui sopra, forse apparentemente meno spaventosi e più “politicamente corretti” ma non per questo meno pericolosi.


Ma usciamo adesso dalle lugubri metafore in stile horror e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su quanto è avvenuto e sta avvenendo perché, con buona pace della gravità dei fatti, siamo solo all’inizio; non prima, però, di una brevissima introduzione storica volta, naturalmente, non a delineare le vicende dell’Afghanistan nel corso dei millenni ma a sottolineare alcuni episodi che possono aiutarci a comprendere quello che sta accadendo adesso.
Chi controlla l’Afghanistan controlla l’Asia centrale, con tutte le ricadute che questo può avere sulle regioni limitrofe e sugli sbocchi sull’Oceano Indiano.


Per la sua straordinaria rilevanza strategica, il Paese è sempre stato oggetto degli appetiti geostrategici non solo delle potenze regionali, ma anche di protagonisti che venivano da molto lontano; appetiti destinati (quasi) sempre a rimanere frustrati. Infatti, dopo i ripetuti e sostanzialmente fallimentari tentativi da parte degli imperatori persiani Achemenidi (Ciro e Dario in testa) di porlo sotto il loro controllo, l’unico che, nell’arco di circa 3000 anni di storia, sia riuscito a stabilire un controllo duraturo sull’Afghanistan anche dopo la sua morte, è stato nientemeno che Alessandro Magno, il quale, nel 330 a.C. nel corso della sua progressiva avanzata verso Oriente, occupò il Paese e vi instaurò una dinastia ellenistico-battriana che, nel corso del I secolo a.C., dovette cedere il posto a una dominazione di origine scita (“Tokharia”). Gli sciti sono una popolazione che ha dato sempre filo da torcere a tutti quelli che si sono messi sul suo cammino; tra alterne vicende, mantenne un incerto controllo sul Paese fino al 480 d.C., quando subentrarono gli Unni che dovettero contenderselo con i persiani Sassanidi. Finchè, nel VII secolo, gli uni e gli altri furono travolti dall’avanzata arabo-islamica. Da allora il Paese fu inserito all’interno della grande regione del Khorasan, che comprende parte dell’Iran, del Turkmenistan, dell’Uzbekistan, del Tajikistan e, secondo alcuni, anche del Pakistan e dell’India: in altre parole, la quint’essenza, il cuore dell’Asia centrale.


Da allora, l’Afghanistan ha alternato periodi di relativa autonomia ad altri di sottomissione a imperi o dinastie feudali, gli uni e gli altri ugualmente turbolenti, tra cui si distinguono i turchi Selgiuchidi o i mongoli di Gengis Khan che, dopo aver invaso il Paese con la consueta ferocia, riuscirono a tenerlo solo per un secolo. Fu la volta quindi di Tamerlano, che conquistò il Paese sul finire del XIV secolo e i cui discendenti fonderanno l’Impero Moghul, che sarà poi sconfitto dai persiani Safavidi, fino al 1747, quando la dinastia di origine pashtun dei Durrani si impadronì del Paese dando vita a quello che è considerato l’Afghanistan moderno.


Nel XIX secolo, l’Afghanistan entrò nel mirino dell’Impero britannico che, intenzionato a proteggere le frontiere Nord-occidentali dell’India ma soprattutto a contenere l’allargamento della sfera di influenza dell’Impero Russo zarista, avviò con quest’ultimo un conflitto politico-diplomatico senza esclusione di colpi per garantirsi il controllo dell’Afghanistan e dei suoi importantissimi valichi montani (un nome per tutti, il Khayber Pass, via di accesso per l’Oriente, intorno al quale sono state massacrate migliaia di soldati, anche delle super-potenze, negli ultimi decenni): è quello che è passato alla storia come il “grande gioco”, messo in atto dai servizi di intelligence dei due imperi in questione e che da allora è rimasto sinonimo di trame oscure ad altissimo livello.
Per evitare lo scontro armato, Russia e Gran Bretagna trovarono un accordo nel 1885, con il quale stabilirono le rispettive zone di influenza nel Paese.


Il contenzioso diplomatico si trascinò fino al 1907, quando la Russia rinunciò esplicitamente alla sua influenza sull’Afghanistan e il Paese diventò un semi-protettorato britannico (di fatto, lo era già dal 1879). Tutt’altro che diplomatico fu, invece, il conflitto tra l’Esercito britannico e quello afghano che, dal 1841 al 1921, si articolò in ben tre sanguinosissime guerre, che alla fine portarono all’indipendenza del Paese nel novembre del 1921. Nel 1926 l’emiro Amān Allāh fondò una monarchia che, tra intrighi di palazzo, omicidi e “torbidi” di vario genere, si trascinò fino al 1973, anno in cui, approfittando di una visita del re proprio in Italia, un “golpe di palazzo” orchestrato da Mohammed Daud, cugino del sovrano, rovesciò la monarchia e istituì la Repubblica.
Fino ad allora, le direttrici della politica estera afghana erano state improntate alla neutralità, sia prima sia dopo la II Guerra Mondiale, al contenimento del Pakistan – che comportò un trattato di amicizia con l’India – e a un avvicinamento all’Unione Sovietica per facilitarle uno sbocco “sui mari caldi”, evitando il Pakistan.
Nel 1978, Daud viene ucciso nel corso di un colpo di stato di matrice marxista-leninista, le cui due anime erano rappresentate da Mohammad Taraki da un lato e da Hafizullah Amin e Babrak Karmal dall’altro. Per contrastare l’opposizione, determinata a rovesciare il regime, il governo invoca “l’aiuto fraterno” dell’Unione Sovietica.

Nel 1979, l’Armata Rossa invade l’Afghanistan.
Questo evento segna uno spartiacque nella storia del Paese e dell’intera regione, anche per le conseguenze che ha avuto sugli equilibri mondiali. Immediatamente si scatena una resistenza armata contro l’occupazione sovietica da parte delle varie fazioni, etnie e tribù che compongono il variegato panorama etnico dell’Afghanistan; ma sono soprattutto le componenti sunnite, rappresentate dall’etnia Pashtun fortemente ideologizzate e radicalizzate dalla “scuola di Deoband” (oltre alla minoranza tajika nel Nord del Paese) che organizza nella Valle del Panshir un “santuario” della resistenza. Le armi agli insorti sono fornite soprattutto dagli Stati Uniti (siamo ancora nella Guerra Fredda), dal Pakistan e anche dall’Arabia Saudita e dalle altre monarchie del Golfo, in funzione sì anti-sovietica ma soprattutto, in prospettiva anti-sciita, contro l’Iran.
Il retroterra strategico su cui possono contare gli insorti è costituito dalle regioni pachistane al confine con l’Afghanistan, in particolare l’aspra regione del Waziristan, gravitanti intorno alle città di Peshawar e Quetta.
È in questo contesto che fa il suo ingresso un personaggio che segnerà la storia mondiale tra la fine del ‘900 e l’inizio degli anni 2000: parliamo di Osama bin Laden, miliardario rampollo di una famiglia dell’altissima borghesia saudita, che ha votato se stesso e i suoi miliardi alla causa dell’ortodossia sunnita, oltre che agli interessi della sua classe sociale, in conflitto con la monarchia degli al-Saud.
Osama organizza e finanzia una capillare “rete” di “mujaheddin”, guerriglieri della fede contro il comunismo ateo e materialista, che andranno a costituire un esercito addestrato e ideologizzato di cui disporre anche in altri scenari. E infatti, quando nell’89 i sovietici si ritirano dall’Afghanistan, dopo aver lasciato sul campo 26.000 morti (ma secondo alcune fonti anche 50.000, e addirittura 90.000…), crolla l’Unione Sovietica e con essa il sistema bipolare e Saddam Hussein invade il Kuwait, Osama offre alla monarchia saudita il suo esercito, che oramai ha acquisito il celeberrimo nome di “al-Qaeda” (appunto “la rete”), contro un’eventuale aggressione al Regno da parte delle truppe irachene. Disgraziatamente la dirigenza di Riyad rifiuta l’offerta di Osama per accogliere invece le truppe americane e britanniche sul “sacro suolo” saudita, sede dei luoghi santi del “Profeta”, su cui nessuno straniero armato dovrebbe mai mettere piede: e questo è forse l’inizio della fine. La Guerra del Golfo andò come sappiamo; Osama giurò vendetta contro la monarchia saudita, al-Qaeda divenne l’organizzazione para-terroristica trans-nazionale che conosciamo (perché definirla solo “terroristica” sarebbe riduttivo) e trovò nella guerra civile, scoppiata nel frattempo in Afghanistan tra le varie fazioni, il suo campo di battaglia sostenendo militarmente ed economicamente i “Talebani”, ovvero gli studenti delle scuole coraniche di fazione islamista fortemente radicalizzata appartenente all’etnia Pashtun che, muovendosi a cavallo del confine con il Pakistan, come durante il conflitto con i sovietici, nel 1996 occupa la capitale Kabul e istituisce l’Emirato Islamico, in cui le efferatezze giuridico-politico-sociali, attribuite erroneamente alla Sharia (la legge coranica), vanno ricondotte in realtà al “Pashtunwali” ovvero l’antico codice d’onore pre-islamico dei Pashtun.
L’11 settembre ha fatto il resto, innescando una “bomba” che da anni attendeva di esplodere. Nell’ottobre dello stesso anno gli anglo-americani e, poi, la NATO invadono l’Afghanistan, accusato di essere lo “sponsor” del terrorismo qaedista.
Ricapitoliamo. Gli imperatori persiani Achemenidi; Alessandro Magno (tra i più grandi geni militari di tutti i tempi); i “feroci” barbari Sciti; gli Unni; i potenti persiani Sassanidi; la travolgente invasione arabo-islamica; i temibili turchi Selgiuchidi; Gengis Khan, il più grande genio militare della storia; Tamerlano, il cui nome fa ancora rabbrividire le popolazioni dell’Asia centrale e meridionale; l’Impero britannico e quello zarista, che tra alterne vicende non sono mai riusciti a venirne a capo; l’Armata Rossa, la più potente forza “terrestre”, come riconosciuto anche dall’Occidente…
Nessuno dei più potenti soggetti politico-militari espressi dalla storia negli ultimi 3000 anni è riuscito a stabilire un controllo duraturo sull’Afghanistan (tranne forse Alessandro Magno): vorrà dire qualcosa?
Certo, si può dire che la rilevanza strategica del Paese ha fatto sì che le mire espansionistiche delle varie potenze, entrando in conflitto tra loro, si siano neutralizzate a vicenda.
Ma va osservato che tutte hanno sempre dovuto affrontare una resistenza irriducibile da parte delle popolazioni locali. Certo, un’irriducibilità favorita anche dalle condizioni ambientali, ideali per condurre una guerra “irregolare” di lunga durata, contro cui anche i più potenti apparati militari delle super-potenze possono ben poco; ma ci sono altri fattori che entrano in gioco, a favore della “resistenza afghana”. Qualcuno ha detto che gli “Afghani”, come popolazione, di fatto non esistono perché in Afghanistan è presente un crogiolo di etnie, a loro volta suddivise in tribù, che vanno a costituire un caleidoscopio in cui è difficile riscontrare un denominatore comune. Se dovessimo applicare questo principio alla lettera, forse non esisterebbero neanche gli Italiani… certamente non gli Europei. Non entreremo in questo contesto in sofisticate questioni etno-antropologiche; ma va detto che, con buona pace del variegato panorama etnico-tribale dell’Afghanistan, nel momento in cui hanno dovuto difendere il proprio territorio da invasioni esterne, sia singolarmente sia alleandosi in coalizioni, le varie popolazioni hanno trovato una volontà comune per opporsi ai diversi invasori. Sicuramente ci sono stati casi in cui è valso il principio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico” ma, in linea di massima, le diverse popolazioni hanno sempre trovato dei denominatori comuni per definirsi, appunto, “Afghani”, catalizzandosi talvolta intorno ad un’etnia “predominate”, come nel caso dei Pashtun o intorno alla fede religiosa, come l’Islam sunnita (ma coesistente anche della minoranza sciita, come nel caso degli Hazara). Forse è una semplificazione antropologica un po’ troppo brutale ma va ricordato che, in definitiva, questi sono tutti (o quasi) “Ariani”: quelli veri, non quelli del delirio nazista!
La città di Herat, in cui il nostro contingente è stato presente per tanti anni, fu fondata da Alessandro Magno con il nome di “Alessandria Aria” e “Ariana” è il nome della più importante emittente televisiva afghana, oltre che della compagnia aerea di bandiera.
Forti di queste (molto sommarie) premesse storiche, riallacciamoci a quella “prevedibilità” della “riconquista” talebana a cui accennavamo in apertura.
Salutati da molte parti come un intervento della Provvidenza, l’anno scorso sotto l’amministrazione Trump, a Doha (Capitale del Qatar, vero centro di gravitazione politico-diplomatica della regione, come dimostrano anche gli incontri ad alto livello in corso in questi giorni), sono stati firmati gli accordi tra i talebani (rappresentati da Abdul Ghani Baradar, storico fondatore del movimento e capo della “delegazione diplomatica” talebana) e gli Stati Uniti, che prevedevano il progressivo ritiro delle truppe americane dal territorio afghano entro l’11 settembre 2021 (una data che voleva avere anche una valenza simbolica).
Va osservato che questa è stata solo l’ultima tappa di un percorso diplomatico più o meno sotterraneo che era stato avviato nel 2011 dell’allora Presidente Barak Obama, il quale si era espresso in merito ad un progressivo sganciamento militare americano dal Teatro afghano e, più in generale, da (quasi) tutti i Teatri Operativi che vedevano la presenza di truppe USA. Le amministrazioni passano ma certe direttive restano; e così a Joe Biden è toccato l’ingrato compito di gestire la parte finale del ritiro dall’Afghanistan. In realtà, se le cose fossero state fatte “come Dio comanda”, il ritiro si sarebbe potuto svolgere, con tutte le attenzioni e la prudenza del caso, in maniera “indolore” sia per quella parte della popolazione afghana desiderosa di abbandonare il Paese per i motivi più disparati sia per gli stessi militari americani, che hanno contato 13 morti nell’attentato vicino all’aeroporto di Kabul del 26 agosto, messo in atto dall’ISIL-K, frazione afghana dello Stato Islamico (come abbiamo già avuto modo di vedere in precedenti analisi, in contrasto con al-Qaeda in vari scenari). Non è dato sapere con certezza i reali motivi che hanno spinto gli Stati Uniti ad anticipare il ritiro di circa un mese, senza peraltro prendere le dovute misure per mettere in sicurezza quei cittadini afghani che, avendo collaborato con le forze di occupazione (interpreti, mediatori ecc.), sarebbero incappati nella vendetta dei talebani, agli occhi dei quali i suddetti cittadini appaiono come “collaborazionisti” (e i collaborazionisti, come è ovvio che sia, non hanno mai avuto vita facile in nessuna parte del mondo).
È preciso dovere di una super-potenza (almeno finchè ci si vuole presentare così all’opinione pubblica mondiale) comportarsi come tale: è pertanto imperdonabile la mancata previsione (o, peggio ancora, il disinteresse), da parte degli apparati statunitensi preposti, di un’ondata di profughi afghani a cominciare proprio da quelli che avevano collaborato con le truppe USA. Quello che doveva essere un ordinato trasferimento di questi collaboratori negli Stati Uniti, previsto, organizzato e distribuito nel corso dei mesi (oramai trascorsi), si è risolto in una caotica e talvolta tragica “caccia al posto sull’aereo”, immortalata dai media di tutto il mondo, con scene di persone che precipitavano dagli aerei già decollati che non si erano viste neanche nella drammatiche giornate del ritiro da Saigon, nel 1975, la cui somiglianza è risaltata agli occhi di tutti. Peggio di una “fuga”: è stata una vera e propria “Caporetto” sul piano organizzativo e umanitario.
Il Generale Mario Buscemi, già Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito e attuale Presidente di AssoArma, in una recente intervista rilasciata all’Adnkronos, ha dichiarato testualmente:
“Una tragedia… da parte degli americani c’è stato un approccio molto semplicistico…”.
Gli USA sono andati via dall’Afghanistan per loro volontà e quindi avrebbero potuto pianificare meglio il ritiro».
Ripetiamo: Biden è soltanto l’ultimo anello (dal punto di vista cronologico) di una catena che è iniziata molti anni fa -forse addirittura dal lontano 2001 – e che, secondo qualcuno anche all’interno dei palazzi del potere a Washington, non doveva neanche cominciare…
Qui non è in discussione il ritiro in sé: se così fosse, ci troveremmo di fronte a una posizione pregiudiziale nei confronti degli USA: se intervengono, li critichiamo perché intervengono; se si ritirano, li critichiamo perché si ritirano. Questo è un modo propagandistico e fazioso e non analitico, di affrontare la questione.
Il vulnus è il modo catastrofico in cui questo ritiro è avvenuto, al punto da gettare addirittura delle ombre sull’effettiva trasparenza degli accordi di Doha.
E altrettante ombre si estendono su un altro fenomeno, apparentemente imprevisto, ma tutt’altro che imprevedibile. Ci riferiamo alla latitanza, pressoché totale, dell’Esercito afghano; quell’Esercito che per ben vent’anni anche noi abbiamo contribuito ad addestrare, con l’obiettivo che potesse diventare, oltre che una forza in grado di operare autonomamente per garantire la sicurezza del Paese, anche un asse portante della nuova società afghana. Ed è proprio questa la piaga in cui, per onestà intellettuale, non possiamo astenerci dal mettere il dito! Un addestramento “esclusivamente” militare, quand’anche di altissimo livello, può essere sufficiente per formare degli ottimi reparti di truppe mercenarie, che vanno a combattere perché mosse da motivazioni personali; ma risulta assolutamente insufficiente quando si vuole formare un esercito “nazionale”, che abbia delle motivazioni e che si riconosca in valori morali, spirituali, identitari, in una parola “culturali”, in nome dei quali valga la pena sacrificare la vita.
Il Generale Mauro Del Vecchio, che nel 2005 ha comandato il contingente multinazionale ISAF della NATO in Afghanistan, lo ha sottolineato con chiarezza in alcune sue recenti dichiarazioni; ma sono concetti che aveva formulato 500 anni fa Niccolò Machiavelli “nell’Arte della Guerra”, in cui sottolineava l’imprescindibile rilevanza della componente “morale” come elemento discriminante per una milizia votata alla difesa della nazione.
Il problema è che, per preparare moralmente e “culturalmente” delle truppe, è necessario un lunghissimo periodo di indottrinamento che, se svolto in tempi brevi, si ridurrebbe ad un lavaggio del cervello collettivo, i cui effetti nel tempo sarebbero altrettanto brevi, a maggior ragione se si vuole “acculturare” secondo i “nostri” parametri degli uomini che provengono da culture radicalmente diverse. In questo senso la falla è emersa in tutta la sua gravità: venti anni di presenza sul territorio o non sono stati sufficienti per far assimilare alla popolazione i nuovi valori in nome dei quali, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, era partita la missione (ricordate!? Portare la democrazia, togliere il burka alle donne, ecc. ecc. ) oppure quei valori non si è saputo trasmetterli, vuoi per “incapacità pedagogiche”, vuoi perché forse, in molti casi, i portatori di quei valori erano gli ultimi a crederci e pertanto è emersa così la loro funzione meramente strumentale e propagandistica: l’intervento in Iraq lo ha fatto emergere in maniera tanto evidente quanto drammatica.

E allora non dobbiamo stupirci se nel 2019 taluni istruttori della NATO confessavano ai giornalisti che i militari afghani «quando si arriverà al combattimento, non avranno alcuna speranza. Gli ufficiali vendono la benzina al mercato nero, i sottufficiali vendono le munizioni, i Generali firmano organigrammi falsi per intascare gli stipendi di soldati che non esistono» e quando Edward Luttwak, nume tutelare di tanti strateghi contemporanei, dichiara sfacciatamente ai nostri telegiornali che «l’Esercito talebano era una truffa di cui tutti erano a conoscenza». Ma in fondo hanno anche ragione quelli che osservano come non si possa pretendere che degli uomini vadano a morire per difendere delle istituzioni, al vertice delle quali sono stati posti in tanti, troppi casi, degli impostori veri monumenti eretti alla disonestà e alla corruzione.
Quelli che, invece, hanno dimostrato un’autentica “capacità di apprendimento”, sono stati proprio i talebani. Da ispidi guerriglieri barbuti, vestiti con dei “camicioni” e armati di vecchi (ma sempre efficacissimi) AK-47, che però controllavano da anni l’85% del territorio extra-urbano e anche questo si sapeva (e avrebbe dovuto far riflettere!) questa volta hanno fatto il loro ingresso nelle città “su un tappeto rosso”, senza incontrare resistenza, vestiti e attrezzati come le Special Forces “a stelle e strisce” e armati con le più moderne evoluzioni dell’M-16, a cominciare dai sofisticati e costosissimi Heckler & Koch tedeschi.
L’evoluzione dei talebani non è solo estetica. Oltre agli (e prima degli) accordi di Doha, la “diplomazia talebana” aveva già avviato una fitta rete di rapporti con diversi attori della regione, anche molto potenti: non a caso, la Russia è stata la prima a dichiarare ufficialmente che «con i talebani si può solo trattare»; la Cina, come è nel suo stile, non l’ha neanche detto, lo ha fatto direttamente. Da anni queste due potenze hanno stretto accordi con i talebani ed ora, con la ritirata degli americani, non tarderanno a “passare all’incasso”. Ma gli studenti coranici sono stati molto abili anche a conquistarsi la fiducia del cosiddetto “estero vicino” ovvero di quei Paesi, il più delle volte confinanti, sui quali le vicende interne dell’Afghanistan hanno inevitabilmente delle ripercussioni, nel bene e nel male. Dopo vent’anni di resistenza a quella che è tuttora la potenza militare egemone, senza vedere minimamente scalfita la propria supremazia neanche dalle formazioni interne a loro ostili – si veda la minoranza tajika del Nord, che guidata dal figlio di Massud continua l’opposizione nella Valle del Panshir – i talebani dosando sapientemente le vecchie tattiche della guerriglia con le moderne tecniche della comunicazione, hanno saputo presentarsi non solo al resto della popolazione afghana ma anche e soprattutto ai Paesi limitrofi, come gli unici, veri garanti della stabilità nel Paese e quindi come l’unico interlocutore su cui fare affidamento.
Con la stessa abilità, proprio in questi giorni, stanno utilizzando lo spettro della possibile e imminente crisi umanitaria per far breccia nella comunità internazionale “a più ampio raggio”: dalle Nazioni Unite, all’Unione Europea, alla Turchia, al Qatar (sempre più a suo agio nei panni di “burattinaio” della regione) è un coro unanime quello che si leva a favore di un rapido intervento in favore in Afghanistan per evitare una catastrofe di dimensioni immani.
Quella dei talebani è stata prima di tutto una vittoria “politica” ad ulteriore dimostrazione che la vittoria militare (in Afghanistan non c’è stata neanche quella) è sterile e addirittura controproducente se non è accompagnata, anzi guidata, da un’adeguata strategia politica.
Abbiamo visto i talebani (ri)entrare a Kabul non come conquistatori, ma come “legittimi” detentori del potere costituito; li abbiamo visti indossare la tenuta operativa degli incursori occidentali; rilasciare interviste in inglese a giornaliste americane felici di un simile scoop; li abbiamo visti in versione politically correct, mostrarsi garanti della sicurezza delle istituzioni; trattare da pari a pari con le diplomazie dei più importanti Paesi del pianeta; qualcuno si è addirittura tagliato la barba…
Qualcuno potrà osservare – e non senza ragione – che si tratta per larga parte di operazioni di facciata, di pura cosmesi politica, di un sapiente rifacimento del maquillage. Ma proprio per questo siamo costretti a concludere che, in definitiva, sono stati loro i migliori “allievi” dell’Occidente.

Sergio Buono