“Nella mia carriera, i militari italiani li ho visti crescere”

Il Basco Azzurro ha avuto il privilegio di avere una conversazione molto istruttiva con S.E. Staffan de Mistura, già Inviato speciale dell’Onu per l’Iraq, il Libano, l’Afghanistan e la Siria e già Vice ministro degli affari esteri, sulle sue esperienze di diplomazia operativa in zone di conflitto.

Eccellenza, il corridoio umanitario è una sua ricerca costante. Ci racconti di più sulle emozioni vissute quando Nave San Marco, della Marina italiana, riuscì a raggiungere Dubrovnik quel 20 novembre 1991.
Il quartier generale dell’Onu era stato organizzato presso l’hotel Argentina. Materialmente lo aveva costituito l’Unicef, ma nella realtà manifestava la volontà dell’Onu. Alloggiavo nella stessa sede con il mio assistente senza acqua e senza poter uscire per il tiro dei cecchini.
La strategia era far entrare in Dubrovnik rispettivamente, il ministro dell’Immigrazione Margherita Boniver e il suo omologo francese per gli Affari umanitari, Bernard Kouchner. La presenza dei rappresentanti di due nazioni europee importanti avrebbe attirato l’attenzione dell’opinione pubblica.
La volontà dell’Unicef era screditare la convinzione di Milosevic che gli accadimenti fossero una questione interna e cercare di far conoscere la sorte orribile che la città stava subendo. In particolare, tramite i bambini, si puntava ad avere una “carta bianca” per entrare in città sotto assedio con aliscafi, perché i turisti non c’erano. Gli aliscafi avrebbero issato la bandiera dell’Onu, i loro comandanti sarebbero stati nominati consulenti dell’Organizzazione e entrando nel porto della città ne avrebbero forzato in qualche modo il blocco.
Successivamente, si sarebbe stabilito un quartier generale Onu issando una bandiera delle Nazioni Unite e garantendo le comunicazioni tramite un primo satellitare, con il quale avremmo informato l’opinione pubblica su quanto stava accadendo nella città. Arrivati poi i Ministri, avremmo lanciato un appello per revocare il blocco e consentire l’evacuazione dei bambini per via marittima.
I Ministri rimasero in città tre giorni, mentre io rimasi 40 giorni. Ogni volta che entrava una nave militare evacuavamo donne e bambini, riuscendo cosi a rompere l’assedio. Le navi ovviamente procedevano a velocità ridotta per prolungare l’effetto dell’interruzione.
Nel mare erano state diffuse delle bombole del gas che sembravano delle mine.
Il satellitare era usato per descrivere in diretta ciò che avveniva smentendo le dichiarazioni di Milosevic su chi stesse bombardando la città.
In quella occasione, provai due emozioni contrastanti: una sensazione di gioia quando nave San Marco entrava a Ragusa, salvando donne e bambini e rompendo l’assedio e sdegno per il bombardamento indiscriminato di elementi architettonici di Ragusa quali la cattedrale dell’Assunzione di Maria e lo Stradun. Non gradivano minimamente la nostra presenza e naturalmente bombardavano anche il nostro albergo.

Il desiderio di studiare i soccorsi umanitari di emergenza e dedicare la sua vita a lavorare per la risoluzione pacifica del conflitto l’ha portata, fra l’altro a ideare l’operazione “San Bernardo”, che prevedeva l’uso di elicotteri russi per segnalare agli aerei NATO le aree di lancio degli aiuti umanitari alla popolazione etiope colpita dalla carestia.
Un primo esempio di coordinazione militare combinata dall’Onu. Una parte della popolazione era, infatti, isolata sugli altipiani. Moltissimi, quelli deboli, non riuscivano a scendere.
Avendo studiato le operazioni di airdropping adattando sacchi di tela juta, evitando costosi paracaduti, riuscivo a coordinare l’utilizzo dei mezzi aerei della Nato e del Patto di Varsavia in piena Guerra Fredda. Un’operazione comune con accordi fra le parti che collaboravano attraverso l’Onu. Gli aerei erano della Nato, mentre gli elicotteri erano del Patto di Varsavia; in particolare, sacchi di grano venivano lanciati a bassa quota e ad alta velocità da aerei tedeschi e americani, con il concorso di medici italiani, su aree designate con elicotteri sovietici pilotati da militari polacchi.
La chiamai operazione “San Bernardo”, malgrado le obiezioni sovietiche che riuscii ad evitare spiegando che il nome non aveva nessun riferimento religioso ma che si ispirava al cane svizzero e pertanto neutrale, che salvava le persone sulle montagne svizzere. Riuscii in piena guerra fredda a risolvere una grave crisi, con il Consiglio di Sicurezza bloccato per volontà dell’Urss, bombardando con cibo e raggiungendo lo scopo organizzando uno sforzo congiunto di assetti Nato e del Patto di Varsavia.

..un successo al punto che, nel 1986 in Sudan, ha avuto l’incarico speciale di far arrivare generi alimentari e di prima necessità, alla città assediata di Juba.
Traumatizzato ma felice di rompere il tetto di vetro fra aiuti umanitari e interventi militari coordinati dall’Onu, questo aspetto mi rendeva orgoglioso per essere riuscito ad affiancare la professione di mio padre che si era formato all’Accademia Militare di Modena e la mia. Al contempo, ero rammaricato per il ritardo con cui si è intervenuto provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. L’Onu era paralizzata, i guerriglieri stringevano d’assedio la città di Juba e disponevano anche di missili contraerei Sam 7 e i militari avevano già abbattuto un aereo. Il Programma alimentare aveva noleggiato un aereo civile indonesiano, un C130, con i colori arcobaleno, che erano i colori di tutte le nazioni che avevano finanziato la missione. John Garand [n.d.r. leader del Sudanese People’s Liberation Army – SPLA] voleva abbattere l’aereo perchè il governo non gradiva questa ingerenza nei propri affari interni e l’Onu era dubbioso.
Il Santo Padre, che allora era Karol Woytila, dopo aver sentito la situazione drammatica in cui versava Juba alla Bbc, inviò sul posto Madre Teresa di Calcutta che arrivò a Khartoum. Resasi conto della situazione, telefonò al presidente americano Ronald Reagan per chiedere aiuto e il Presidente americano chiamò il suo omologo che, finalmente, autorizzò il volo.
L’aereo prese il volo rimanendo ad alta quota per tenere impegnati i Sam della guerriglia, mentre con un vecchio DC9 con a bordo Madre Teresa e carico di generi alimentari volavo a bassa quota e atterravo a Juba che da quel giorno non fu più assediata.

Ambasciatore, in passato ha elaborato soluzioni molto originali a gravi crisi umanitarie. Nel 1989 riuscì a portare del cibo a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, dove le truppe sovietiche si stavano ritirando dopo dieci anni di occupazione militare e dove la popolazione soffriva di grave malnutrizione.
Kabul stava cadendo in mano ai mujahidin ma rifiutai di partire per non abbandonare la popolazione. Le popolazioni scappavano dalle campagne per cercare rifugio in città, ma il governo non le nutriva. Chiesi un trasporto aereo alle Nazioni Unite e il governo non rifiutò. Le pressioni arrivavano, infatti, da chi voleva far cadere la città; peraltro, Mohammad Najibullah aveva denaro e stava tenendo a bada i mujahidin.
Tutte le compagnie aeree si rifiutavano di volare ed è in quel momento che l’Etiopia ricordò del mio intervento di due anni prima e mi concesse un aereo con cui abbiamo portato gli aiuti creando così un precedente.

Eccellenza, nel corso della sua lunga carriera mi risulta che abbia avuto numerose occasioni per osservare l’operato o relazionarsi con militari italiani: cosa suggerirebbe loro?
Nella mia carriera, i militari italiani li ho visti crescere.
Agli inizi non parlavano le lingue, ma presto capirono che nelle operazioni dell’Onu di peacekeeping essere umani è cruciale; forse istintivamente, forse per il training sapevano relazionarsi con la popolazione. I soldati italiani sono molto apprezzati all’estero per la loro grande umanità. Il consiglio fondamentale che mi sentirei di dare è che, dal soldato ai comandanti, tutti abbiano, l’ho visto con i miei occhi, una adeguata preparazione preventiva sulla cultura del Paese in cui vanno ad operare. Arrivare, ad esempio, con dei cani o osservare la domenica quando, invece, in quel Paese si osserva il venerdì porta immediatamente un risultato diverso: rafforzare e raffinare a tutti i livelli l’addestramento che viene fatto è molto importante.

Giovanni Ramunno

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