DALLA CINA CON FURORE

Quando il “pericolo giallo” viene dal mare

di Sergio Buono

All’inizio dell’anno ci siamo occupati del (parziale) disimpegno e sganciamento degli Stati Uniti dallo scacchiere mediterraneo, nell’ottica di una “rimodulazione” della propria presenza militare all’estero, alla luce delle attuali esigenze strategiche. Proprio di recente abbiamo visto come anche il “tumultuoso” ritiro dall’Afghanistan si inserisca all’interno di questo contesto “emergenziale”, per usare anche noi un termine alla moda.
Con l’esplosione, lo scorso 15 settembre, del “caso Aukus” – ovvero, l’annuncio dell’alleanza politico-militare trilaterale tra Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna – è arrivato dunque il momento di entrare nel merito di questa “urgenza strategica” che sta dietro al progressivo sganciamento delle truppe americane da diversi scenari in cui sono state protagoniste negli ultimi decenni. Questa “emergenza” si chiama “Cina”!
In realtà, l’allarme contro il “pericolo giallo” è scattato già da diversi anni, soprattutto da quando, con la caduta del sistema bipolare, la Cina si è andata progressivamente affermando come potenza economica mondiale, con malcelate mire egemoniche anche dal punto di vista politico e strategico ai quattro angoli del mondo. Finchè si trattava di contrastare “l’invasione” dei prodotti “made in China”, appariva sufficiente adottare quelle contromisure squisitamente economiche, che vanno dall’imposizione di dazi alla guerra doganale, senza però esulare dalla sfera prettamente commerciale. Nel momento in cui la posta in palio non è più solo economica, ma geo-strategica, si è reso necessario, da parte americana, adottare strumenti adeguati e correre ai ripari sia pure, talvolta, piuttosto “precipitosamente”.
La priorità, nell’agenda dell’Amministrazione Biden, è stata,
come sappiamo, prendere le distanze dall’Amministrazione Trump.
Questa presa di distanze, però, non implica un radicale abbandono degli obiettivi strategici degli USA ma, semmai, il loro perseguimento secondo modalità differenti.
Con la Presidenza di Donald Trump il dialogo con la Cina era arrivato ai minimi storici. Biden si è posto l’obiettivo di combinare la necessità di stemperare i toni del confronto, senza cedere nulla però dal punto di vista politico e, soprattutto, strategico; da quest’ultimo punto di vista, cercando di rincarare addirittura la dose. Un impegno oltremodo gravoso, vista la postura sempre più “assertiva” del gigante asiatico, che si mostra, nei diversi scenari mondiali, sempre più determinato e sicuro di sé.
Rispetto all’approccio unilaterale in politica estera del suo predecessore, riassunto nello slogan “America first”, Biden ha saggiamente recuperato il parametro guida dell’Amministrazione Obama, ovvero quel “multilateralismo” che, sotto la parvenza di un egualitarismo democratico tra alleati, di fatto consacra il ruolo di primus inter pares del colosso americano nel processo decisionale delle direttive strategiche.
Lo slogan “L’America è tornata”, con cui l’Amministrazione Biden si è presentata al mondo, ha trovato la sua realizzazione proprio nella “chiamata alle armi”, per ora solo metaforica, di tutti gli alleati, effettivi e potenziali, degli Stati Uniti nella “crociata” per il contenimento dell’avanzata cinese. In particolare, lo abbiamo visto con l’Europa, in occasione del vertice del G7 di giugno in Cornovaglia, che ha visto il Presidente Biden approfittare dell’occasione per riallacciare i buoni rapporti con gli alleati europei, notevolmente raffreddati dopo i ripetuti tentativi di Donald Trump di smembrare l’Europa. La tecnica utilizzata da Joe Biden a questo scopo è vecchia come la politica: chiamare a raccolta tutti gli alleati europei, sotto l’egida della protezione americana, contro un “comune nemico”: l’asse russo-cinese. Le dichiarazioni rilasciate dal Presidente americano nelle settimane immediatamente precedenti al summit del G7 sono state straordinariamente esplicite nei confronti dei due “nemici”: Vladimir Putin e Pechino.
Scendendo più nel dettaglio, e con particolare riferimento all’Alleanza Atlantica, Biden auspicherebbe lo schieramento dei Paesi dell’ex-Patto di Varsavia, oggi membri della NATO, in funzione di contenimento delle mire di Mosca; gli alleati “atlantici” dell’Europa occidentale sarebbero invece impegnati nel contrasto dell’espansionismo di Pechino, con l’invio di navi militari nel Mar Cinese Meridionale. Non entreremo in questa sede nel merito degli effettivi risultati politico-militari della trasferta europea di Biden, perché esulerebbe dagli obiettivi di questa analisi.
Speculare a quella sul fronte europeo è stata la “chiamata alle armi” sul fronte Indo-Pacifico, ovvero quello più vicino e quindi più coinvolto nell’eventuale scontro contro il nemico numero uno: la Cina.
Risale al 2007-2008 il “Quad” – Quadrilateral Security Dialogue – l’alleanza tra Stati Uniti, Australia, India e Giappone in funzione esplicitamente anti-cinese. Alla luce dei nuovi sviluppi e dell’accelerazione degli eventi, il 24 settembre scorso Biden, per la prima volta, ha chiamato a raccolta i leader dei Paesi sopra menzionati alla Casa Bianca per fare il punto della situazione e coordinare le misure da adottare nei confronti del loro “ingombrante vicino”.
Ma per consolidare ulteriormente la cintura di sicurezza nei confronti di Pechino, l’Amministrazione americana negli ultimi mesi ha avviato una serie di visite ufficiali da parte di alti esponenti del governo in quasi tutti i Paesi della regione (Tailandia, Cambogia, Indonesia, Filippine, Singapore, Vietnam).
In questa ragnatela di alleanze, abboccamenti, esplicite intese e silenziosi ammiccamenti, il 15 settembre esplode lo “scandalo (si fa per dire) Aukus”, che accende i riflettori dei media internazionali su questo scacchiere sempre più “effervescente”. Le agenzie di stampa di tutto il mondo rilanciano infatti la notizia secondo cui Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna, come abbiamo accennato all’inizio, hanno stretto un ulteriore accordo di cooperazione politica, militare e di intelligence – oltre a quelli che li legano già da decenni – che si è concretizzato, e questa è la notizia choc, con l’acquisto, da parte dell’Australia, di un numero non ancora precisato di sottomarini a propulsione nucleare americani e, forse britannici, facendo letteralmente saltare l’accordo precedentemente stipulato con la Francia per l’acquisto di ben 12 sottomarini a propulsione convenzionale; il tutto, alla totale insaputa della Francia medesima, che è venuta a conoscenza dell’accordo trilaterale dai mezzi di comunicazione. Facile immaginare la reazione della Francia, ferita nella sua grandeur.
I motivi alla base della sottoscrizione di questo accordo da parte dell’Australia sono molteplici. Da un punto di vista prettamente militare, è probabile che gli otto sottomarini nucleari (ma il numero non è ancora stato annunciato ufficialmente) appartengano alla classe Virginia (americani) o Astute (britannici), permettendo un raggio d’azione e una capacità di intervento di gran lunga maggiori, rispetto ai sottomarini convenzionali classe Collins, attualmente in servizio presso la Marina australiana, e anche rispetto a quelli francesi della classe Attack, previsti dal precedente accordo con il governo di Parigi. Da un punto di vista più propriamente strategico, le infrastrutture che Canberra appronterà per il supporto logistico di questi sottomarini, costituiranno delle ottime basi di appoggio per quelli delle Marine Militari americana e britannica, proprio nell’ottica del contenimento marittimo della potenza cinese.
Ma perché questa regione dell’Indo-Pacifico è diventata improvvisamente così rilevante, dal punto di vista strategico?
In realtà, si tratta di un’area ad altissima rilevanza strategica fin da quando gli esseri umani hanno cominciato a navigare, perché lo Stretto di Malacca, e con esso il Mar Cinese Meridionale, rappresenta la porta d’ingresso dall’Oceano Indiano all’Oceano Pacifico, e viceversa, e chi controlla questo collo di bottiglia tiene in pugno uno dei gangli geo-strategici più importanti del mondo: attraverso di esso viaggia oltre un terzo del commercio marittimo mondiale! Vista la rilevanza che la Cina è andata assumendo negli equilibri economici globali, non sembra azzardato affermare che il Mar Cinese Meridionale rientra in quello che potremmo definire lo “spazio vitale” di Pechino. Non a caso il governo cinese fa risalire ai secoli passati i suoi diritti sul controllo di questo mare (e di quelli adiacenti), e il fatto che oggi ne rivendichi il 90% delle acque provoca una crisi di ansia in tutti i Paesi che vi si affacciano direttamente o che si trovano nelle immediate vicinanze. Di fatto è la rotta più importante del mondo.
In questo scenario Taiwan svolge un ruolo fondamentale. Rappresenta il fulcro della controversia tra Stati Uniti e Cina, al punto che alcuni si sono spinti a dire che rappresenta la vera posta in gioco, proprio perché è “baricentrica” nel controllo dei mari cinesi: non solo garantisce il controllo delle rotte che dall’Oceano Pacifico all’Oceano Indiano arrivano fino al Mediterraneo, ma, per la Cina, rappresenta anche la porta d’ingresso all’Oceano Pacifico, ovvero una proiezione fondamentale per diventare una potenza marittima. A tutt’oggi Taiwan è un feudo americano e nei prossimi mesi gli Stati Uniti provvederanno a installare basi militari sul suo territorio: è proprio di questi giorni la notizia dell’arrivo di truppe americane sull’isola…
La posta in gioco non è solo economica e strategica, ma anche simbolica: le autorità di Pechino hanno dichiarato apertamente, senza possibilità di equivoci, che entro il 2049, centenario del trionfo della rivoluzione maoista, Taiwan dovrà tornare alla Cina!
Se la Cina si riprenderà Taiwan vincerà la partita con gli Stati Uniti. Gli strateghi di Pechino avrebbero già pronti i piani teorici per l’invasione dell’isola, anche se le sue coste non sono l’ideale per un’operazione anfibia.
In quest’ottica la Cina sta moltiplicando le violazioni dello spazio aereo di Taiwan (la cosiddetta “ADIZ”: Air Defence Identification Zone) con i suoi caccia: Taipei potrebbe cadere nella trappola e abbatterne qualcuno.
E, a quel punto, “la frittata è fatta”…
Taiwan dimostra come il controllo delle isole della regione rappresenti uno degli strumenti più efficaci nella manovra di “strangolamento” degli USA nei confronti della Cina. È proprio nella consapevolezza di questa rilevanza strategica delle isole che la Cina ne sta costruendo alcune “artificiali”. Il contenzioso relativo ad alcune isole nel Mar Cinese Meridionale è di vecchia data; ma, alla luce dell’attuale conflittualità e della rinnovata centralità che questo mare ha assunto, il governo di Pechino ha pensato bene di sfruttare queste che non sono altro che atolli corallini per trasferirvi milioni di tonnellate di terra ed edificarvi delle basi militari in piena regola, con tanto di piste per il decollo/atterraggio degli aerei cinesi. Sebbene la Corte dell’Aja, nel 2016, si sia pronunciata sull’illegittimità delle rivendicazioni cinesi su queste isole, Pechino “ha fatto orecchie da mercante” anzi, ha reagito rincarando la dose in termini di “proliferazione” di queste strutture artificiali, per non parlare dell’incremento delle sue unità navali, che in termini numerici rappresentano la Marina più grande del mondo.
Considerato lo scenario in cui si svolge l’azione di questo contenzioso strategico e il palcoscenico in cui si andrà a recitare il conflitto politico-militare del prossimo futuro, si vedrà la presenza di attori nel ruolo di protagonisti e di comparse; allora andiamo a dare un’occhiata agli attori chiamati a recitarvi.
Abbiamo già accennato a come il continente asiatico sia in cima all’agenda strategica di Joe Biden e di come questa priorità sia stata ereditata dalle Amministrazioni precedenti. Rispetto alla stessa impostazione di Barak Obama, improntata anch’essa al “multilateralismo”, l’approccio di Biden presenta delle caratteristiche proprie. La “dottrina” di Obama nei confronti del continente asiatico era stata riassunta dallo slogan «Pivot to Asia» cioè l’America doveva svolgere il ruolo di “fulcro”, di “perno” intorno a cui far ruotare l’asse politico-strategico asiatico, esattamente come nel basket il gioco ruota intorno al ruolo del “pivot”, che per molti aspetti ne è il regista. L’impostazione di Biden invece sembra aver ulteriormente “democratizzato” l’approccio politico americano nei confronti degli alleati dagli occhi a mandorla (Giappone); infatti, al concetto di “fulcro” intorno a cui ruota la strategia del continente, è stato sostituito quello di “impegno”, o meglio ancora di “coinvolgimento” degli Stati Uniti nello scenario geo-strategico asiatico, sottolineando così una postura più paritaria nei confronti degli alleati. Qualcuno ha voluto esprimere questo concetto con il termine “engagement”.
Dal canto suo la Cina, contestualmente al fronte esterno, da alcuni decenni si ritrova a dover affrontare una serie di sfide anche su diversi fronti interni che hanno pesanti implicazioni sul piano internazionale.
Hong Kong non ne vuole sapere di sottomettersi alla volontà di Pechino,
e i dimostranti per l’indipendenza ostentano provocatoriamente la bandiera britannica durante le manifestazioni, come dire, che
si stava meglio sotto il dominio coloniale inglese che sotto la Repubblica Popolare Cinese.
Le immagini della repressione violenta da parte delle forze di polizia cinesi hanno ampio spazio nei telegiornali di tutto il mondo occidentale.
Al contenzioso con Taiwan, risalente agli anni ’40 del secolo scorso, abbiamo accennato in precedenza. Quanto all’annosa rivendicazione di indipendenza del Tibet, è stata talmente enfatizzata dai media occidentali che presso l’opinione pubblica internazionale essa viene immediatamente associata all’immagine di Richard Gere – il più celebre delle star hollywoodiane che si riciclano come paladini dei diritti umani – e alla tunica arancione del Dalai Lama, quasi fosse il logo di un brand da vendere sui mercati internazionali.
Tutte queste criticità interne rivestono un ruolo importante nella questione che stiamo trattando in questa sede, perché vengono utilizzate pretestuosamente come arma nella guerra mediatica delle democrazie occidentali contro il regime cinese.
Le autorità di Pechino rigettano qualunque invito a discutere questi temi in ambito internazionale, rivendicando il diritto di affrontarli come meglio credono, trattandosi di questioni interne alla Repubblica Popolare.
Per tornare all’alleanza quadripartita “Quad”, dopo Stati Uniti e Australia ci restano da considerare gli altri due Paesi firmatari dell’accordo (Giappone e India).
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, tutti danno per scontato che il Giappone, da un punto di vista strategico, sia una pedina nelle mani degli USA.
Questo luogo comune è solo parzialmente vero, perché il governo di Tokio gioca una partita tutta sua, che va ben al di là del consueto appoggio a Taiwan e a Hong Kong, perché, a differenza delle potenze occidentali, il Giappone da diversi anni ha avviato quella che è stata ribattezzata “China Exit”, ovvero una manovra di politica economica estera volta a convincere le imprese nipponiche che hanno delocalizzato la produzione in Cina per motivi di convenienza, a trasferire le fabbriche in altri Paesi, per danneggiare il governo di Pechino.
Tra l’altro il Paese, con buona pace delle pesantissime limitazioni previste dagli accordi seguiti alla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, si sta riarmando.
Il contenzioso con la Cina relativo alle Isole Senkaku, controllate dal Giappone dal 1895, rappresenta un efficace banco di prova per la “rinascita militare” nipponica che, nel Mar Cinese Orientale e nel Mar del Giappone, lo ripetiamo, persegue obiettivi tutti suoi, che solo incidentalmente coincidono con quelli del potente alleato d’oltre oceano, e che nondimeno conferiscono al Paese del Sol Levante una centralità imprescindibile nel confronto tra Stati Uniti e Cina.
L’allineamento del gigante indiano con l’alleato americano è controverso: alcuni vedono il governo di Dehli supinamente appiattito sulle direttive di Washington; altri attribuiscono invece alle autorità indiane una maggiore autonomia nel delineare le proprie direttrici strategiche in relazione ai propri interessi geopolitici ed economici. L’abbandono precipitoso del teatro afghano, da parte delle truppe americane, ha lasciato, come si suol dire, il governo di Dehli con il cerino in mano. Dal 1947 (anno dell’indipendenza) l’India è in conflitto con il Pakistan; per ragioni geografiche, etniche e culturali, il governo di Islamabad ha sempre considerato l’Afghanistan come il proprio retroterra strategico. La “fuga” degli Stati Uniti dall’Afghanistan fa temere, giustamente, alle autorità indiane (per inciso avevano sostenuto il governo di Kabul con parecchi milioni di dollari) che il sogno del Pakistan possa finalmente realizzarsi, a tutto danno delle prospettive strategiche dell’India nel suo conflitto contro il Pakistan, in Kashmir e non solo.
Indubbiamente, il conflitto latente lungo il confine nord-orientale con la Cina – che recentemente si è riacceso, con le immagini di vere e proprie “risse” tra le truppe confinarie dei due Paesi che hanno fatto il giro del mondo – costituisce un motivo in più per giustificare un avvicinamento agli Stati Uniti, anche se la catena himalayana, di fatto, impedisce qualsiasi proiezione di potenza da terra, tra i due colossi asiatici.
Ma il problema vero, che toglie il sonno ai vertici politici e militari di Nuova Dehli, è la progressiva avanzata della Cina, con una vera e propria manovra a tenaglia, nell’Oceano Indiano, che si sta concretizzando, come avvenuto nel Mediterraneo, con l’acquisizione dei porti, in questo caso pakistani, da parte della Cina. Sono decenni che la Cina cerca di erodere spazi di terra e di mare all’influenza dell’India.
Ma al di fuori del Quad e dell’Aukus, e su tutt’altro fronte, c’è un altro protagonista che gioca la sua partita in questo scacchiere; anch’esso, come Cina, Giappone e India, non da qualche anno, ma da qualche secolo: la Russia.
Gli appetiti della Russia e le sue aspirazioni verso “uno sbocco sui mari caldi” sono diventati un luogo comune della politica internazionale, dai tempi dell’Impero zarista, attraverso il regime sovietico, fino alla Russia “nazionalista” di Vladimir Putin.
Queste aspirazioni si inseriscono a pieno titolo nella strategia di rilancio della ex super-potenza russa nello scenario internazionale, in cui lo scacchiere indo-pacifico riveste un ruolo fondamentale.
Ma procediamo per gradi.
Come abbiamo già avuto modo di osservare, la politica sempre più “intraprendente” sul fronte estero ha fatto di nuovo inquadrare Mosca nel mirino di Washington.
Se il contenimento “dell’orso russo”, da parte dei Paesi dell’Europa orientale, di concerto con gli Stati Uniti, è previsto sul fronte politico-diplomatico-economico, in altri scenari la dimensione “cinetica” – ovvero, quella delle operazioni militari vere e proprie – appare tutt’altro che remota. E anche in questo caso, come per la Cina, si tratta di un contenimento eminentemente marittimo. Già ai confini tra Europa e Asia, nelle acque del Mar Nero, si è assistito a quella che potrebbe essere la prova generale di quanto sta accadendo nel Mar Cinese Meridionale. Ma la sfida geo-strategica che Mosca è chiamata a intraprendere si svolge su un altro scacchiere, anche questo in ambito marittimo. Il riscaldamento climatico sta progressivamente sciogliendo la calotta di ghiaccio nell’Oceano Artico, rivelandosi così come un ulteriore alleato della politica sempre più assertiva di Putin. Questo significa che le navi russe, sia quelle mercantili che quelle militari della Flotta del Nord, da qui ai prossimi anni avranno le rotte dell’Artico libere dal ghiaccio per periodi sempre più lunghi dell’anno; la Flotta del Nord, la più importante e potente tra le flotte russe, attraverso lo Stretto di Bering, libero dai ghiacci, potrà raggiungere in un lampo l’Oceano Pacifico, dando supporto alla Flotta del Pacifico di stanza a Vladivostok, e da qui, passando attraverso il Mar Cinese Orientale e poi Meridionale, entrare nell’Oceano Indiano. E così abbiamo la “quadratura del cerchio”.
Vediamo allora di tirare le somme di questo articolato quadro strategico e della sua possibile evoluzione.
Rispondendo alla chiamata a raccolta degli Stati Uniti per contenere, sul fronte marittimo (almeno per il momento), le mire espansionistiche cinesi nel nevralgico scacchiere dell’Indo-Pacifico, diverse nazioni hanno già inviato le proprie unità navali a supporto della Settima Flotta americana (area di competenza: Oceano Pacifico occidentale e parte dell’Oceano Indiano).
Trattandosi di una chiamata all’insegna del “multilateralismo”, e non del “verticismo” imperialistico, le risposte sono venute un po’ in ordine sparso, piuttosto diluite nel tempo così come nella consistenza; ultima arrivata, in ordine di tempo, la fregata tedesca Bayern, che il 5 novembre ha fatto scalo a Tokio, nell’ambito di un programma di esercitazioni con la Marina giapponese, che di fatto costituiscono un messaggio rivolto a Pechino.
La prima a rispondere all’appello è stata naturalmente la Gran Bretagna, seguita a ruota dall’ex colonia Australia ; ma anche la Francia non ha tardato a dare il suo contributo, con buona pace dello “sgarbo” attuato con l’Aukus – anche se nel mese di giugno, in occasione del summit del G7, Francia e Germania erano state le due nazioni che avevano esplicitamente “declinato l’invito” a partecipare alla crociata contro la Cina.
Nel caso specifico della Francia, poi, in un incontro a margine del vertice del G20, il 30 ottobre scorso a Roma, tra la consueta profusione di sorrisi e strette di mano, il Presidente Biden ha avuto modo di confermare al suo omologo francese, Macron, quanto già concordato nel corso di una telefonata di qualche settimana prima, quando aveva garantito al governo di Parigi un consistente risarcimento per la perdita della commessa dei sottomarini all’Australia in termini di sostegno geo-strategico alla Francia nella regione africana del Sahel.
Da diversi mesi questo eterogeneo insieme di flotte incrocia tra il Mar Cinese Meridionale e quello Orientale, a debita distanza di sicurezza dalla flotta cinese che pattuglia con meticolosità tutta la parte orientale quella che, parafrasando la “Dottrina Monroe”, potrebbe essere definita “la sua piscina di casa”.
Con buona pace di tutte le ostentazioni di forza, e sebbene il rischio sussista, al momento è poco probabile che tutto questo sferragliare di armamenti conduca ad uno scontro diretto.
Un conflitto armato tra Stati Uniti e Cina potrebbe innescare, come accaduto per la Prima Guerra Mondiale, il micidiale meccanismo delle alleanze, che porterebbe, quasi inevitabilmente, ad un “terzo” conflitto mondiale.
Anche se si escogitasse una “formula alchemica” per limitare lo scontro alla sola regione dell’Indo-Pacifico, considerate le potenze in campo, e gli armamenti di cui dispongono, il costo del conflitto, in termini umani e di risorse, sarebbe tale che non converrebbe a nessuna delle due parti. È pertanto lecito supporre (e soprattutto sperare!) che queste “esibizioni muscolari” siano solo complementari all’azione diplomatica, per renderla più “persuasiva”.
In merito poi alla “strana alleanza” tra Cina e Russia, va sottolineato che sin dai tempi degli Zar e dell’Impero di Mezzo, la geopolitica ha condannato i due giganti ad un costante stato di conflittualità, anche quando le due potenze condividevano, entrambe, la bandiera rossa dell’ideologia marxista. Ma la caduta del sistema bipolare ha scompaginato lo stagnante equilibrio internazionale, proprio della Guerra Fredda.
Pertanto, anche se si tratta solo di un momentaneo matrimonio di interesse, l’unica super-potenza rimasta dovrà tenere in debito conto il rischio che scaturisce dalla convergenza tra Mosca e Pechino; anche perché si tratta di un’alleanza che si va consolidando già da diversi anni e il Patto di Shanghai, con le sue impressionanti esercitazioni militari congiunte, lo sta a dimostrare – per non parlare del cosiddetto “asse anti-occidentale”, che comprende un numero consistente di Paesi “emergenti” del Terzo Mondo, tutt’altro che inclini ad inchinarsi alla volontà di Washington.
Chi sembra pagare il prezzo più alto di tutta questa “ginnastica” geopolitica sembra proprio l’Europa.
Grazie alla sua oramai cronica disomogeneità di interessi e mancanza di orientamenti strategici condivisi, che la relegano ai margini della dialettica politica internazionale, l’Unione Europea si ritrova nella scomoda e imbarazzante posizione di dover pagare il conto per un pranzo consumato ad un altro tavolo.
L’Italia, confidando in un imminente declino della super-potenza americana, negli ultimi anni ha cominciato ad ammiccare ambiguamente in direzione di Pechino, nella inconfessata convinzione di un prossimo cambio al vertice del potere mondiale.
Questo orientamento era stato sancito nel 2019, con la firma degli accordi della Nuova Via della Seta.
Il pericolo reale di una rappresaglia da parte degli americani ha convinto il Governo italiano a ridimensionare queste posizioni filo-cinesi, impegnandosi a rivedere i precedenti accordi con Pechino nell’ottica di un totale riassorbimento nella sfera di influenza a stelle e strisce.
Non per niente, l’Italia è stato il Paese che ha ottenuto il maggior successo nella trasferta europea di Biden per il G7 di giugno.
Ma al di là delle sia pure legittime recriminazioni e auto-critiche, lacrime versate su occasioni perdute e incapacità di riconoscerne di nuove, un dato inequivocabile emerge su tutte le considerazioni di carattere militare, politico ed economico che si possano fare: l’asse geo-strategico mondiale ha subito una rotazione longitudinale di 180°, e lo scenario che per decenni aveva rappresentato il fulcro delle dinamiche internazionali, lo scacchiere atlantico-mediterraneo, si è trasferito nelle lontane (per noi) acque tropicali dell’Indo-Pacifico.
È qui che, ci piaccia o no, si giocherà la partita, forse sarebbe meglio dire “la battaglia navale”? del prossimo futuro.
Con il passare del tempo, quella distanza di sicurezza tra le navi delle flotte contrapposte si va progressivamente riducendo, talvolta ai limiti della collisione; c’è da augurarsi che, nel corso di incontri così ravvicinati e sottoposti a un notevole stress, in questo scambio reciproco di provocazioni e contro-provocazioni, i Comandanti delle navi mantengano i nervi saldi, e il dito lontano dal pulsante…

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