“Attraverso l’esordio nella scrittura, Bettelli sembra trovar modo di ricomporre tessere di un mosaico interiore necessario a mantenere intatta la sua passione di vivere. Immagini non ancora sbiadite, capaci di guidare il lettore nella supposizione di cosa possa essere toccare da vicino la minaccia della guerra e la possibilità della morte, ma senza mai perdere la speranza”.
(Lisa Ginzburg)
Beirut – 27 maggio 2011, un ordigno esplode sulla superstrada per Sidone: il soldato italiano Giovanni Memoli è morto. La storia invece seguirà un altro corso.
“Attraverso l’esordio nella scrittura, Bettelli sembra trovar modo di ricomporre tessere di un mosaico interiore necessario a mantenere intatta la sua passione di vivere. Immagini non ancora sbiadite, capaci di guidare il lettore nella supposizione di cosa possa essere toccare da vicino la minaccia della guerra e la possibilità della morte, ma senza mai perdere la speranza”. Lisa Ginzburg
L’attentato temuto e scongiurato è accaduto. Un automezzo del contingente militare italiano appartenente alla missione United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL) viene colpito alla periferia nord della città di Sidone, sul litorale mediterraneo libanese.
Il Libano è teatro aperto del confronto con Israele ancora oggi irrisolto e solo in parte mitigato dalla presenza pluridecennale della comunità internazionale. Dal 1978, e ancor più dopo l’ennesimo riaccendersi del conflitto nell’estate del 2006, la missione dell’ONU vigila sul fragile cessate il fuoco a cavallo della linea di demarcazione tra i due Stati, la Blue Line.
Giovanni è il peacekeeper italiano che tra i sei a bordo del VM90 dell’Esercito con la livrea bianca delle Nazioni Unite subisce più gravemente gli effetti dell’ordigno proditoriamente fatto esplodere sul ciglio della superstrada che congiunge la capitale Beirut con il sofferente sud geopolitico.
Le mani esecutrici del vile attentato sono ignote, forse quelle dei soliti palestinesi che sono facile strumento dell’ideologia di morte perpetrata da anonimi potenti e che da tempo sono ospiti negletti dei campi profughi di Sabra, Chatila, Bourj el Barajneh e di molti altri ancora, essi stessi colpiti nei momenti più cupi dell’inesauribile percorso di esodo dai loro luoghi di origine.
La passione di Giovanni diviene il paradigma di un racconto variegato sugli affascinanti misteri di una terra in perenne instabilità, colma di contraddizioni per la sua articolata composizione multi confessionale, crocevia di civiltà transfughe da luoghi remoti, caleidoscopio finanziario e affaristico per azzardate scommesse d’interesse, ineffabile mescolanza di idiomi e di comportamenti secolari, irrequieto laboratorio di esperimenti geopolitici e, in tutto questo, messaggio di speranza per una possibile convivenza tra molteplici diversità.
Il protagonista narrante dello scorcio di vita libanese, della passione di Giovanni e, in fondo, anche della sua stessa sofferenza, è il Colonnello (Qa’id) dell’Esercito Addetto per la Difesa presso l’ambasciata italiana nella capitale libanese, uno dei funzionari del complesso sistema diplomatico nel Paese del Vicino Oriente.
Il Libano è un ponte costantemente proiettato verso l’Occidente che ha offerto numerosi approdi alla millenaria diaspora libanese. Tra le mete raggiunte entro i confini della penisola italica, vi sono state le coste insulari dell’era precristiana e l’esilio privilegiato d’arte e di cultura della casa medicea per l’emiro Fakhr el Din II, all’epoca del Granducato di Toscana.
La telefonata di un’amica giornalista della principale redazione televisiva nazionale libanese annuncia la notizia dell’attentato e rompe la quiete oziosa di un pomeriggio qualsiasi. Dallo scorcio di una Beirut nitidamente sospesa sull’oleoso mare estivo, ha inizio il vortice delle emozioni che altera irreversibilmente l’animo del protagonista.
È un percorso nuovo di cui Giovanni, dal suo coma, si prende cura, rammentando a chiunque sia coinvolto nel suo dramma non solo la labilità del vivere, ma anche la dignità della sofferenza e il valore della croce cristiana che è mite accettazione della propria condizione e dinamico divenire attraverso il servizio per il prossimo.
Il servizio in armi è, nello sbocco adesso sacrificale di Giovanni, parte del racconto. La menomazione che gli è stata procurata, alla stregua di numerose altre che affliggono i soldati segnati nella carne durante il loro servizio nelle missioni di pace, o “per la pace” come sarebbe più corretto dire, porta con sé la bellezza dell’onore. Diventa bene collettivo e monito per chi quella bellezza sappia coglierla.
Accade, pertanto, che la missione che il protagonista compie per l’effetto dell’attentato divenga, nell’incontro con la famiglia di Giovanni, ma anche attraverso l’incrocio con altri personaggi, viatico per una comprensione forse definitiva delle ragioni del vivere.
La vanità, nella metafora del volo inerte di un aliante, raggiunge la profondità dell’anima svolgendo la sua ultima spirale. È un rilascio di energie di cui il volo è ambito ricorrente: la fatalità dell’avaria motore, l’affaccio alla luce del sole che diviene granulosa all’interno del cockpit, le sfumature ocra e arancio del tramonto nell’ultimo atterraggio.
Nella narrazione, gli incroci con le esperienze di una terra segnata dal confronto spesso cruento si ripetono. Sono i palestinesi, che popolano i campi profughi, gli sciiti, la cui affermazione sociale li ha portati a diventare un’importante realtà finanziaria, politica e paramilitare della galassia multi confessionale libanese, le oligarchie familiste, che da sempre dominano la storia di un Libano sfrontato e intraprendente, i funzionari pubblici insieme ai militari e ai poliziotti, che alimentano il disordine di un Paese in cui tutto è permesso se si ha l’autorità per farlo.
Giovanni, da vedente nell’anima, trova la sua strada, come la trova, nello spasmo finale della corsa, altra metafora del vivere, il protagonista.
“È il 27 maggio 2011, tra due giorni i caschi blu della missione UNIFIL in Libano ricorderanno i loro caduti, fra questi anche i soldati italiani dell’Operazione Leonte. Alle ore 15.55, un ordigno esplode sul ciglio della superstrada che collega la capitale libanese con l’antica città fenicia di Sidone. Le agenzie stampa battono la notizia: un soldato italiano è morto. Poco dopo, il portavoce dello Stato Maggiore della Difesa dichiara “nessuno ferito rischia la vita”; ma il nostro autore che è lì, con l’incarico di addetto per la difesa presso l’ambasciata italiana, sa che adesso, a distanza di quattordici anni dagli ultimi caduti del nostro contingente in Libano, un altro soldato italiano potrebbe lottare tra la vita e la morte. Da quel giorno, la “passione” del ventenne Giovanni Memoli si intreccia drammaticamente con le vicende della Terra dei Cedri, un Libano mostrato dall’autore nella chiave giusta a comprendere i sommovimenti interni della scena geopolitica mediorientale.
Leonte tiene amalgamati ricordo privato, confessione professionale, ripensamento dell’intera esistenza a “metà del cammino”. È una storia narrata isolando un preciso segmento di tempo: che prende forma tra scenari chiassosi, quelli di una Missione il cui senso si riassume nel quotidiano lambire il pericolo. Confessione appassionata di un uomo per il quale matrimonio, paternità, lealtà nella gerarchia, fame di solitudine, sete di conoscenza di mondi stranieri, altrettanto dei segreti del proprio animo che di quelli altrui – tutto è ugualmente cruciale”. (Gaffi Editori in Roma)